Basta ascoltare le musichette che fanno da sottofondo ai servizi dei tanti talk show presenti sulle varie emittenti. Marcette irriverenti come a dire: ma che li vogliamo davvero prendere sul serio la politica e i politici? Non c’è simbolo migliore per la delegittimazione della politica. Non c’è rituale di degradazione più efficace. Risalire la china sarà difficile.

Ma come si è arrivati a questo punto nel rapporto fra media e politica? Una prima risposta superficiale ci potrebbe portare ai tempi di Tangentopoli. Ma non sarebbe del tutto corretto. È dopo che ci si è avvitati in una spirale che conduce verso il discredito della politica, una spirale del rumore in cui si è determinato un rapporto inversamente proporzionale: cresce la chiacchiera politica mentre diminuisce il rispetto per la politica.

La prima tappa del processo che ha portato al punto in cui siamo è la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Una mossa che contiene in sé tre sovvertimenti: di linguaggio, di competenze, di contestualizzazione. Già la frase usata – scendere in campo – sottolinea la volontà di attingere a un linguaggio non politico, che parli a tutti e comunichi la seconda rivoluzione: “il candidato che vi parla è credibile perché non è un politico e non sarà mai un politico”.

L’incompetenza diventa un valore. Il tradimento di Tangentopoli aveva determinato l’inaffidabilità dei “professionisti della politica”, espressione che assumerà un significato negativo. L’incompetenza, cioè provenire da altri ambienti, appare la cartina di tornasole della propria onestà, requisito prediletto della società civile. Grazie a un linguaggio e a un apparato simbolico del tutto nuovo, Berlusconi sposta la politica dai classici contesti istituzionali del confronto e della decisione ai media, e segnatamente alla televisione: la sua casa. La sua è una scelta obbligata. Deve tirare su dal nulla una forza politica in pochi mesi. Non può fare altro che sfruttare quello che ha. Gli altri partiti lo rincorrono. Smarriti da fenomeni sociali che stentano a comprendere, si rifugiano sui media, sedotti dall’aura di modernità che emanano, ma senza capire perché farlo e come farlo.

Così, improvvisamente, cambia il racconto della politica, per decenni ingessato, confinato in contenitori e linguaggi specialistici, caratterizzato da quello che è stato definito parallelismo politico fra classe politica e giornalisti, con una netta e perdurante subalternità dei media alla politica. In altri Paesi il rapporto fra media e politica ha una lunga storia, caratterizzata da una progressiva centralità dei primi, coltivata anche attraverso la rivendicazione della propria indipendenza e della propria funzione di controllo del potere. Nel caso italiano, questo rapporto vede una tardiva quanto improvvisa inversione di tendenza: dalla secolare dipendenza dei media dalla politica allo scarto realizzato con Tangentopoli, reso possibile dal repentino successo economico dei media, che li rende meno dipendenti dai favori della politica.

I media diventano, se non l’unico, di gran lunga il principale luogo del discorso pubblico. Ma quale sistema dei media assume questa funzione? L’aspetto paradossale, conseguente all’ingresso di Berlusconi in politica, è che la concorrenza anziché produrre un allontanamento dell’emittenza pubblica dall’intreccio con la politica, “politicizza” anche il polo privato, fino ad allora strategicamente tenutosi a distanza, grazie a una linea editoriale incentrata sulla cronaca e sulle soft news.

Continua il parallelismo fra politica e informazione, ma l’intreccio registra un’inversione nei rapporti di forza, con i media che iniziano a dettare l’agenda, a definire i frame, le cornici interpretative attraverso cui si raccontano i principali fenomeni ed eventi. Introducono un nuovo linguaggio, spesso mutuato proprio dalla leggerezza dell’emittenza privata. I politici iniziano a cantare, cucinare, parlare della propria famiglia.

Anche nella carta stampata gli editori continuano a essere “impuri”, cioè a sviluppare prevalentemente le loro attività in altri settori dell’economia; ma ora fanno profitti anche attraverso i mezzi di comunicazione. Un aspetto che dà loro un potere contrattuale maggiore rispetto al passato.

Si produce un’informazione meno rigida politicamente e più legata al mercato; si ampliano i temi trattati, si racconta la realtà anche attraverso nuove soggettività sociali. Tuttavia, i giornalisti scontano la fragilità di un’identità professionale non costruitasi storicamente intorno alla centralità del valore informativo, quanto piuttosto definita da una funzione pedagogica, che trova nell’adesione a specifiche culture politiche il proprio ubi consistam.

In Italia non è mai nato un serio dibattito su cosa voglia dire fare giornalismo. E anzi da noi si è espanso un giornalismo iconoclasta, contiguo alla politica, che resta una dimensione rilevante, come confermano i dati sulla copertura informativa: i temi politici e gli attori politici sono ancora protagonisti, ma sono i media a definire il campo in cui giocare. Nell’epoca della concorrenza digitale non ci si può permettere i tempi lunghi delle inchieste e, quindi, si sposa la facile denuncia. Non siamo all’advocate journalism, alla difesa degli interessi dei meno tutelati. Piuttosto, al non funziona, una critica di maniera, spesso piatta e non approfondita. Una presa di distanza in sintonia con i tempi sincopati ormai richiesti all’informazione e con uno sguardo attento al marketing, che cerca di esaudire “quello che chiede la gente”, in un corto circuito attraverso cui si costruisce l’agenda dei temi e poi con i sondaggi si inseguono le conferme indagando l’umore dell’opinione pubblica.

La politica e il personale politico si sono rapidamente adattati alle logiche dei media, che hanno nella velocità e nella sintesi le loro principali prerogative. I discorsi sono pieni di battute idonee ad aprire i Tg o per i titoli dei quotidiani. Frequente è il ricorso alle metafore, alle esemplificazioni, alle iperboli o, comunque, a un linguaggio per immagini. Poi, con l’avvento dei social, il messaggio si contrae ancor di più in slogan. Perfetto per un giornalismo basato prevalentemente su dichiarazioni, interviste, soundbite, e per una politica che alle mediazioni nelle sedi istituzionali e partitiche sostituisce quella diretta con il pubblico; da cui deriva la costante, quasi maniacale attenzione ai social e ai sondaggi e il corrispondente rifiuto dell’interlocuzione con i corpi intermedi.

In questo modo, però, la mediatizzazione della politica produce anche una nuova politicizzazione dei media. Non più la subalternità alla politica; quanto, piuttosto, la creazione di un doppio legame che comunque rende i due mondi indistinguibili agli occhi dell’opinione pubblica. Si determina una nuova sovrapposizione conseguente a una perdurante contiguità. Un chiaro indicatore di questa tendenza è il successo delle testate maggiormente schierate, che realizzano un giornalismo fortemente valutativo, in cui il punto di vista prevale nettamente sulla completezza informativa.

Ma in questo modo si stabilisce una sorta di effetto boomerang: una progressiva centralità dei media nel racconto della politica, a cui corrisponde, però, una crescente perdita di fiducia sia nei media che nella politica. Si produce una spirale rumorosa ma inconcludente, che conduce a una continua comune perdita di reputazione. Entrambi – media e politica – centrali, ma poco credibili. Centrali, ma non vitali.

 

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