La rielezione di Donald Trump ha messo in moto una dinamica che potrebbe far spostare gli Stati Uniti nel campo della democrazia illiberale, con conseguenze importanti per il futuro delle democrazie liberali, soprattutto se questo riallineamento è destinato a durare. Non è detto che questo sarà necessariamente il caso. In fondo Trump è stato presidente tra il 2017 e il 2021 e, nonostante i suoi istinti autoritari e l’adozione di alcune misure di carattere chiaramente illiberale, gli Stati Uniti sono restati nel campo delle liberaldemocrazie e la quasi totalità delle misure illiberali dell’era trumpiana sono state abrogate dall’amministrazione che l’ha seguita.

Tuttavia, questa volta potrebbe essere diverso. Trump ritorna infatti alla Casa Bianca molto più preparato, con un team coeso, e con un programma molto più ambizioso di quello del 2016. Inoltre, nel 2016 controllava solo in parte il Partito Repubblicano e la Corte Suprema non gli era necessariamente favorevole. È vero che la risicata maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti potrebbe limitargli i margini di manovra, ma è anche vero che nel GOP odierno sarà molto difficile dissociarsi dalle decisioni chiave della nuova amministrazione.

Durante la campagna elettorale Trump ha indicato una serie di priorità che, se realizzate, minerebbero alcune delle fondamenta della democrazia liberale americana. Non ci riferiamo qui alle misure che intende prendere che, per quanto radicali, fanno parte del normale avvicendamento di governo. Tali misure riguardano la politica estera (indebolimento della Nato, politiche isolazioniste), la politica economica (riduzioni d’imposta, imposizione di tariffe), la politica interna (deportazioni e chiusura delle frontiere) e la politica ambientale (abbandono degli Accordi di Parigi, rilancio delle fonti di energia fossile). Tali misure possono piacere o meno e anche avere effetti devastanti, ma sono in principio reversibili e non violano i principi del sistema liberaldemocratico. Vi sono però nel programma di Trump una serie di misure volte chiaramente a snaturare il sistema dello Stato di diritto e indebolire i checks and balances, al fine non solo di governare in modo incontrastato, ma anche di introdurre distorsioni che consentiranno al partito al potere di disporre di un indebito vantaggio nelle future competizioni elettorali.

Nel suo programma, Trump ha introdotto una serie di misure volte a snaturare il sistema dello Stato di diritto e indebolire i checks and balances, al fine di governare in modo incontrastato, disponendo di un indebito vantaggio nelle future competizioni elettorali

Vediamo più da vicino di cosa si tratta attraverso sette sviluppi – chiamiamoli i sette peccati illiberali di Trump – che potrebbero concretizzarsi durante il suo secondo mandato.

La politicizzazione della burocrazia. Alla fine del suo primo mandato, attraverso un ordine esecutivo, Trump introdusse il cosiddetto Schedule F, che consentiva al presidente e alla sua amministrazione di modificare la natura di posizioni nel governo federale – non necessariamente apicali (negli Stati Uniti esiste già uno spoil system che concerne 4.000 posizioni apicali) – rendendole di nomina politica (consentendo così di licenziare o muovere ad altra posizione funzionari non considerati fedeli o sospettati di appartenere al “deep state”). Appena eletto, Biden abrogò la misura. Se reintrodotto e applicato in modo sistematico (come indicato da Trump durante la campagna elettorale), Schedule F renderà la burocrazia federale statunitense succube del potere politico, trasformandola in uno strumento per perpetuare il potere del partito al governo. A tutto questo si aggiunge la creazione da parte di Trump del “Dipartimento per l’efficienza amministrativa”, che sarà guidato da due personalità di spicco del mondo imprenditoriale: Elon Musk e Vivek Ramaswamy. Entrambi, durante la campagna elettorale, hanno fortemente appoggiato Trump e si sono fatti portatori di posizioni molto radicali, dando l’impressione di ricercare più la dissoluzione di dipartimenti e di agenzie che mal si confanno all’agenda trumpiana e l’allontanamento e l’emarginazione dei funzionari considerati non sufficientemente fedeli al nuovo presidente, piuttosto che promuovere una vera efficienza amministrativa.

La presa di controllo del sistema giudiziario a tutti i livelli. Mentre la Corte Suprema è già in gran parte trumpizzata, i gradi inferiori del sistema giudiziario statunitense non lo sono necessariamente, così come non lo è il Dipartimento della Giustizia, che storicamente ha goduto di ampi margini di indipendenza nei confronti dell’amministrazione in carica. Per Trump, prendere il controllo del sistema giudiziario a tutti i livelli è una priorità. I prossimi quattro anni verranno utilizzati per occupare sistematicamente il maggior numero di posizioni nel sistema giudiziario e “normalizzare” il Dipartimento della Giustizia, con l’obiettivo di utilizzare la giustizia a fini politici ed eventualmente elettorali. Per realizzare un tale piano, Trump ha nominato come segretario alla Giustizia Matt Gaetz, un membro della Camera dei rappresentanti conosciuto per il suo appoggio incondizionato a Trump e il suo estremismo. La nomina è particolarmente controversa anche tra i Repubblicani e il Senato potrebbe non ratificarla. Tuttavia, anche nel caso in cui non lo fosse, il messaggio inviato da Trump con la sua scelta è inequivocabile: il Dipartimento della Giustizia va posto sotto lo stretto controllo dell’esecutivo.

L’utilizzazione degli apparati di sicurezza, della guardia nazionale ed eventualmente dell’esercito per reprimere i “nemici interni” (“the enemy from within”). Per “nemici interni” Trump intende “gente malata, lunatici della sinistra radicale”, ma talora annovera tra di essi esponenti che difficilmente potrebbero definirsi tali (per esempio Nancy Pelosi e Liz Cheney). Tuttavia, per poter utilizzare gli apparati di sicurezza nel modo desiderato, deve prima prenderne il controllo. Anche in questo caso le nomine effettuate (Pete Hegseth, un commentatore di Fox News senza esperienza manageriale, al Dipartimento della Difesa; Tulsi Gabbard, un’ex deputata democratica filoputiniana, designata direttrice della National Intelligence) inviano un segnale molto chiaro: sia Hagseth sia Gabbard hanno come compito principale di fidelizzare a Trump l’esercito e gli apparati di sicurezza.

La nomina dei posti apicali dell’amministrazione senza approvazione del Senato. Come appena menzionato, molte delle nomine trumpiane sono così controverse da rischiare di essere rigettate nelle audizioni del Senato. Per evitare un tale esito, Trump ha chiesto alla maggioranza repubblicana di rinunciare volontariamente a effettuare tali audizioni (nonostante la Costituzione affidi al Senato il compito di confermare o rigettare le nomine del presidente) in modo da poter procedere lui stesso alla conferma dei membri del proprio gabinetto governativo.

Il perdono degli assalitori del Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Trump, durante la campagna elettorale, li ha definiti dei patrioti e dei prigionieri politici. Se il perdono si limiterà ad alcuni casi isolati, non si tratterà di un big deal. Se però ci si troverà in presenza di un perdono generalizzato, sarebbe difficile minimizzarne il valore simbolico, poiché legittimerebbe l’insurrezione contro le istituzioni democratiche se i risultati elettorali ottenuti non sono quelli desiderati.

L’ulteriore degradazione della relazione malsana tra potere esecutivo e poteri economici. Già con il primo mandato di Trump, la relazione transattiva con il big business aveva assunto in alcuni casi caratteri quasi peronisti: favori economici in cambio di appoggio politico. Ora, con l’entrata in forza nella cerchia ristretta di Trump di Elon Musk e di altri tecno-oligarchi come Peter Thiel, che teorizzano l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia (il primo dovrebbe avere la precedenza sulla seconda), la relazione è diventata molto più organica. La deregolamentazione dei mercati finanziari, delle criptovalute, dell’alta tecnologia, dell’ambiente potrebbe venire subappaltata ai gruppi industriali e finanziari favorevoli alla nuova amministrazione. La democrazia americana è già da tempo profondamente minata dal potere delle lobby e del denaro. Tuttavia negli ultimi mesi c’è stato un salto di qualità importante: l’aristocrazia del denaro e della tecnologia si dichiara ormai apertamente in carica delle politiche governative e della regolamentazione dell’economia, saltando così ogni intermediazione e spingendosi al di là della definizione data da Marx ed Engels di “comitato d’affari della borghesia” in riferimento al potere esecutivo dello Stato moderno.

Crescenti pressioni sui media, in modo da ottenere il loro addomesticamento. La decisione dell’ultimo minuto del «Washington Post» e del «Los Angeles Times» di non dare indicazione di voto per Harris in seguito alle pressioni alle redazioni operate dai loro proprietari invia un segnale preoccupante concernente le intimidazioni dirette e indirette che i media non allineati alla nuova amministrazione potrebbero subire. Anche in questo caso, siamo in presenza di uno sviluppo inquietante della perniciosa relazione che si sta instaurando tra potere politico e potere economico.

Il risultato elettorale indica una preoccupante disaffezione –  o quantomeno indifferenza –  di una parte significativa degli elettori americani verso la democrazia liberale. Solo un vigoroso soprassalto da parte di chi si è opposto a Trump può forse invertire questa tendenza

I sette peccati illiberali suonano molto ungheresi e orbaniani. E infatti lo sono, talora on steroids. La cosa preoccupante è che Trump non li ha mai nascosti. Essi erano ben conosciuti e rivendicati. Chi ha votato Trump sapeva chi era e che cosa rappresentava. Il risultato elettorale è quindi tanto più grave perché non si era in presenza di una crisi economica, per cui si sarebbe potuto argomentare, in difesa di coloro che hanno votato per Trump, che la disoccupazione, la concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro e la perdita di potere d’acquisto erano questioni più impellenti della difesa della democrazia. Una parte importante degli elettori (anche benestanti), posta di fronte all’alternativa tra premiare l’amministrazione in carica per la sua difesa del sistema democratico e punirla per la percezione – si badi bene la percezione, non la realtà: diversamente dall’Europa, il reddito reale disponibile delle famiglie statunitensi è superiore a quello di quattro anni fa – di un presunto declino economico, ha preferito la seconda opzione alla prima. Il risultato elettorale indica una preoccupante disaffezione –  o quantomeno indifferenza –  di una parte significativa degli elettori americani verso la democrazia liberale. Solo un forte e vigoroso soprassalto da parte di chi si è opposto a Trump e alle sue politiche illiberali può forse invertire questa tendenza.

Se gli Stati Uniti dovessero passare nel campo delle democrazie illiberali, l’impatto sulle democrazie liberali di altri Paesi sarebbe notevole, in particolare nell’Unione europea. Se fin qui, con l’eccezione dell’Ungheria, nei Paesi in cui i partiti sovranisti ed etno-nazionalisti sono andati al governo le misure di carattere illiberale sono rimaste limitate, il fatto che gli Stati Uniti possano trasformarsi nel “beacon of illiberal democracy” potrebbe incoraggiare queste forze (e altre che eventualmente accedessero al governo, come il Rassemblement National di Marine Le Pen) a introdurre anch’esse trasformazioni politico-istituzionali che, blindando al governo il partito al potere, fidelizzandogli l’apparato statale e falsando le future competizioni elettorali, diventano difficilmente reversibili. Come ha notato Francis Fukuyama, “vedere la più grande e antica democrazia che si muove verso il populismo sarà un’enorme ispirazione per questi partiti, e un pericolo per tutti gli altri”.