Lo scorso 3 dicembre la Corte costituzionale ha depositato la sentenza n. 192 del 2024, che ha dichiarato contrarie alla Costituzione parti fondamentali della legge n. 86 del 2024 sull’autonomia differenziata, salvandone altre a patto che siano interpretate in modo conforme alla Carta e, dunque, diverso da come aveva deciso il legislatore.

Le motivazioni che giustificano tale pronuncia appaiono davvero interessanti anche per i profani. Certo, leggere le 109 pagine della decisione non è impresa facile nemmeno per chi è abituato a confrontarsi con le decisioni che provengono dal palazzo della Consulta. Se, tuttavia, si giunge attorno alla metà, da pagina 62 si apre una parte in cui il relatore Giovanni Pitruzzella – con penna davvero felice – spiega perché la legge approvata pochi mesi fa dall’attuale maggioranza costituisce una nota stonata rispetto alla storia e all’architettura costituzionale italiana.

La prima impressione è quella di leggere un (ottimo) manuale di diritto regionale, scritto da un non fervente regionalista. Si parte dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, disposizione introdotta con la riforma costituzionale del 2001 che consente di attribuire anche alle Regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», secondo un complesso procedimento previsto dalla stessa norma. Si riconosce la logica dell’autonomia e della flessibilità alla base di questa norma, eppure non la si considera una «monade isolata» ma semmai una deroga, un'eccezione alla ordinaria ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni.

L’articolo 116 deve dunque essere letto all’interno del quadro complessivo della forma di Stato regionale italiana, fondata sul binomio tra tutela e promozione dell’autonomia e unità della Repubblica, solidarietà tra i territori e eguaglianza tra i cittadini. Una Repubblica ove non esistono «popoli regionali» titolari di fette di sovranità, ma un unico popolo e una unica rappresentanza politica nazionale che risiede nel Parlamento, cui è attribuito il compito di «comporre la complessità del pluralismo istituzionale».

In questo quadro, si tracciano le coordinate dell’equilibrio tra diversità e uguaglianza, tra l’esigenza insopprimibile del regionalismo e l’unità della Repubblica, del popolo e della nazione. Si definisce il modello del regionalismo italiano, ove alla logica della competizione tra i livelli territoriali si preferisce quella della cooperazione, nell’ottica dei principi di solidarietà, di unità giuridica ed economica della Repubblica e di leale collaborazione.

E, in questa logica, si mettono in rilievo le conseguenze sulla distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni del principio di sussidiarietà, che «richiede che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato» e postula che la devoluzione non possa riferirsi a intere materie, come stabiliva la riforma, ma a specifiche e ben determinate funzioni, amministrative o legislative, secondo i principi di adeguatezza, efficienza, equità ed equilibrio del bilancio. Il tutto dopo «un’istruttoria approfondita», basata su metodologie scientifiche. In altri termini, il trasferimento di ogni funzione a una Regione non può essere lasciato alla sola scelta politica ma deve essere giustificato sulla base di dati e di procedure condivise, in relazione all’esigenza di assicurare la miglior tutela dei diritti fondamentali.

Dunque, un manuale con una lettura nel complesso prudente delle forme dell’autonomia dei territori, in linea con la ormai lunga storia del regionalismo italiano, caratterizzata almeno dall’inizio degli anni Settanta dalla prevalenza delle esigenze di omogeneità e coordinamento rispetto alle spinte all’autonomia politica e alla differenziazione.

Una legge che sin dalla sua genesi appariva di cartapesta, poco più di una bandiera da esporre davanti all’elettorato, destinata inevitabilmente ad ammainarsi davanti al giudizio di costituzionalità

Ma questo non è un manuale, è una sentenza che, su solide basi teoriche, finisce con lo scardinare una legge che costituisce uno dei pilastri su cui si fonda l’attuale maggioranza. Una legge, sia detto con tutto il rispetto, che sin dalla sua genesi appariva di cartapesta, poco più di una bandiera da esporre davanti all’elettorato, destinata inevitabilmente ad ammainarsi davanti al giudizio di costituzionalità.

Del resto, una categoria che ama dividersi quale quella dei costituzionalisti si era trovata compatta nell’evidenziare, nelle audizioni parlamentari e sui giornali, l’insostenibilità complessiva di tale riforma. E, nonostante ciò, il decisore politico non ha ritenuto di tenere in considerazione tale giudizio pressoché unanime, trovandosi ora a dover abbandonare il progetto di introdurre livelli di autonomia così differenziati Regione per Regione o quantomeno a dover riscrivere dalle fondamenta tale legge. Ma che cosa prevede in concreto la sentenza?

In primo luogo, la Corte ha dichiarato in contrasto con la Costituzione numerose norme centrali nel processo di devoluzione. Tra esse, oltre alla possibilità di trasferire a una regione intere materie in blocco, il conferimento di deleghe in bianco al Governo per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e le modalità previste per la determinazione e l’aggiornamento dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), tramite un decreto del presidente del Consiglio dei ministri.

Inoltre, la Corte pone un sostanziale divieto di trasferire competenze dallo Stato alle Regioni in materie di grande rilievo, caratterizzate da una disciplina sovranazionale, quali il commercio con l’estero, la tutela dell’ambiente, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, i porti e gli aeroporti, le professioni, nonché le norme generali in materia di istruzione, che hanno una «valenza necessariamente generale ed unitaria» e per le quali «la previsione di una offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale» è ritenuta essenziale per preservare «l’identità culturale del Paese».

La vicenda dell’autonomia differenziata ancora una volta mostra che le regole che attengono al funzionamento della Repubblica sono complesse e radicate nella storia

La Corte invalida poi alcune norme in materia di finanza pubblica che finivano con il favorire le Regioni inefficienti o che indebolivano i vincoli di solidarietà e unità della Repubblica nonché l’estensione della legge alle Regioni a statuto speciale, che possono già ottenere maggiori forme di autonomia attraverso le procedure previste dai loro statuti.

Non solo: anche quando la Corte ha salvato le disposizioni impugnate, ne ha imposto una lettura sistematica che scardina il disegno politico alla base della legge, valorizzando in particolare il ruolo del Parlamento nella “legge di differenziazione”, che la Costituzione prevede sia approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

Che accadrà ora? Il “decalogo” della Corte non richiede solo interventi puntuali sulle norme dichiarate incostituzionali ma un ripensamento radicale dell’impostazione della legge, sia per i contenuti che per il procedimento previsto e gli equilibri tra Parlamento e Governo. Ma questa consapevolezza non sembra albergare tra i promotori della legge, che si sono affrettati a dichiarare che «la sentenza della Consulta conferma che la strada intrapresa dal governo è giusta».

A voler essere ostinatamente ottimisti, però, la frenata a questa autonomia differenziata potrebbe riaprire partite antiche quali quella dell’attuazione legislativa dei Lep e della riforma costituzionale del bicameralismo con l’istituzione di un Senato delle autonomie, a detta di molti imprescindibile nella compiuta realizzazione del modello di regionalismo cooperativo e non conflittuale delineato dalla Corte. Si tratta di un tema complesso, ove non esistono facili ricette.

Ma, del resto, la vicenda dell’autonomia differenziata ancora una volta mostra che le regole che attengono al funzionamento della Repubblica sono complesse e radicate nella storia. La Costituzione consente certo di superare l’uniformità e valorizzare le potenzialità del regionalismo italiano ma un legislatore che si pone in modo ideologico e semplicistico finisce con lo scontrarsi con essa e, nella sostanza, fallire.