La caduta del regime politico presieduto da Bashar al Assad in Siria ha colto di sorpresa la maggior parte degli osservatori. Sottoscritto compreso. Non tanto per l’offensiva delle forze ribelli guidate da Hayat Tahrir al Sham (Hts), che da quasi un anno si preparavano ad agire contro l’esercito siriano, con il via libera dell’esercito turco posizionato a garanzia della sopravvivenza dell’enclave ribelle di Idlib. Non ha stupito neanche la capacità militare di Hts oppure dei proxy di Ankara, sempre pronti ad attaccare le Forze democratiche siriane, a guida curda, nel Nord ed Est della Siria: i droni assemblati o costruiti a Idlib avevano già sferrato attacchi letali contro roccaforti militari di al Assad, come l’accademia militare di Homs nel 2023. 

A stupire maggiormente sono stati lo sbando, la resa, la smobilitazione dell’esercito regolare siriano: ossia del pilastro militare, politico e sociale del regime degli al Assad per cinque decenni. Un’istituzione sopravvissuta alla guerra civile e regionale iniziata nel 2011 ma evidentemente prostrata, come il resto della società, da una “vittoria” segnata da traumi e dalla miseria economica nella quale il Paese, oltre che lo Stato, è caduto a causa della mancata ricostruzione, del disastro finanziario della crisi del 2020 in Libano e delle sanzioni Usa e Ue. Neanche il rientro della Siria all’interno della Lega degli Stati arabi nel maggio 2023 ha portato sostegno, né economico né politico: il rifiuto di al Assad di bloccare il contrabbando di droga o rimpatriare i rifugiati non ha certo aiutato i partner arabi a smarcarsi dai diktat di Washington in merito alle sanzioni. Se perfino le divisioni pretoriane più fedeli, specchio di una parte del regime, hanno smobilitato così velocemente, è evidente lo stato di prostrazione di una società esausta nella quale la maggioranza della popolazione risultava, e risulta ancora oggi, vulnerabile dal punto di vista alimentare, e umanitario. 

Gli elementi interni per il collasso del regime erano tutti presenti. Eppure, ciò non bastava. C’era bisogno del contesto regionale adeguato, ossia l’indebolimento militare e politico dei tre grandi alleati di al Assad: Iran, Hizb’allah e Russia

Gli elementi interni per il collasso del regime erano tutti presenti. Eppure, ciò non bastava. C’era bisogno del contesto regionale adeguato, ossia l’indebolimento militare e politico dei tre grandi alleati di al Assad, che lo avevano già salvato da una crisi simile nel 2014/2015: Iran, Hizb’allah e Russia. Innanzitutto, i due anelli portanti dell’Asse della Resistenza: a seguito del loro sostegno ad Hamas a Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, l’Iran e il movimento libanese Hizb’allah sono stati fortemente colpiti da Israele con il sostegno fattivo di Washington. Costretti alla difensiva dalla superiorità aerea e dell’intelligence israeliana e statunitense, non potevano venire in aiuto di al Assad, né per cielo né via terra. La Russia, invece, presa totalmente dalla guerra in Ucraina, avrebbe sostenuto al Assad solo se l’esercito siriano si fosse fatto carico della resistenza. Così non è stato. I contesti locali e regionali si sono dunque allineati per creare l’opportunità che Hts ha colto. Con la benedizione di Turchia e Qatar, e il cauto compiacimento di Usa e Israele.

I risultati sono lungi dall’essere chiari. Nel breve si registra la caduta senza spargimenti di sangue di massa di un regime autoritario e brutale. E questo non è poco dopo 13 anni di guerra devastante. Le dichiarazioni concilianti da parte di Hts, delle autorità statali e perfino del Partito Ba’th, per una “transizione ordinata” del potere statuale sono ben auguranti. Tuttavia, l’incertezza rimane: azioni di vendetta si verificano a livello locale; uniti da un nemico comune, i ribelli sono divisi per provenienza locale, ambizioni di leadership e interessi materiali; in assenza di un processo di conciliazione post-conflitto, la riorganizzazione armata delle frange radicali del passato regime non sorprenderebbe, vista la sua efficacia nell’Iraq della transizione a guida Usa; oltre al passato jihadista, Hts rimane una forza dell’Islam politico radicale, la cui esperienza di governo autoritario nell’enclave di Idlib rimane un dato di fatto, che mal si concilia con il resto della Siria, de facto secolarizzata e dalle “identità multiple”. Derubricare Hts a forza “conservatrice moderata”, come stanno facendo tanti commentatori occidentali, è certo una strategia in linea con i precedenti storici di sostegno ai “nemici dei nostri nemici”: ne conosciamo già i risultati in Afghanistan, Iraq, Libia e nella stessa Siria; questo atteggiamento non servirà certo a rimpatriare i milioni di rifugiati siriani, come vorrebbero le destre europee, turche e i loro epigoni. 

Intanto, la Siria rimane divisa in cantoni, ognuno con i propri patron regionali e internazionali: a Nord la Turchia, a Est gli Usa, a Ovest la Russia, con Israele che continua a occupare il Golan e a bombardare, mentre l’Iran è in ritirata

A parlare saranno le azioni politiche, tra cui il rispetto delle risoluzioni Onu per un processo “costituente” di conciliazione post-conflitto; la ricostruzione di istituzioni statuali garanti della pluralità sociale, comunitaria e politica che esiste nel Paese; la ricostruzione dell’unità territoriale in via negoziata e non armata. Ad oggi, i primi passi di Hts sono ragionevoli, ma il loro passato politico, anche recente, impone cautela, se non scetticismo.

Intanto, la Siria rimane divisa in cantoni, ognuno con i propri patron regionali e internazionali: a Nord la Turchia, a Est gli Usa, a Ovest la Russia, con Israele che continua a occupare il Golan e a bombardare, mentre l’Iran è in ritirata. Finora la politica internazionale non ha aiutato la risoluzione dei conflitti nella regione, anzi, li ha esacerbati, come dimostra la ferita aperta di Gaza. Anche la politica regionale è sembrata poco incisiva, sebbene abbia dimostrato anche capacità di mediare e trovare compromessi, laddove ha agito in modo autonomo. Vedremo se questo sarà il caso della Siria post-Assad. Lo speriamo anzitutto per i siriani, così come per la “vicina” Europa.