Il 30 ottobre scorso, pochi giorni prima che gli Stati Uniti eleggessero Donald Trump alla Casa Bianca per la seconda volta, Rachel Reeves, prima donna cancelliera dello Scacchiere del Regno Unito, ha presentato un Budget (l’equivalente della Legge di Bilancio italiana) per molti versi storico. La novità non riguarda solo il fatto che, dopo 14 anni di governi conservatori, questo era il primo Budget laburista. Il provvedimento ha sorpreso molti osservatori perché incrementa la pressione fiscale, permette al governo di contrarre più debito e delinea un ruolo più attivo dello Stato in economia. Non si tratta di un ritorno agli anni Settanta, come ha allarmisticamente segnalato la stampa conservatrice britannica, sempre pronta a rinverdire il mito di un decennio che resta, nella memoria popolare, uno spauracchio ben al di là dei suoi (limitati) demeriti.

Il timing del provvedimento è suggestivo, dal momento che le misure introdotte dal Budget sono ispirate alla stessa filosofia del presidente uscente degli Stati Uniti, quel Joe Biden che a luglio di quest’anno si era dovuto ritirare dalla corsa per la Casa Bianca a causa dei suoi malanni e della sua impopolarità. La scommessa dei laburisti britannici, nel 2024, è dunque molto simile a quella che ha ispirato la politica economica di Biden nel quadriennio appena trascorso, e parte dalla constatazione che il padre del Welfare britannico, William Beveridge, sintetizzò con una formula efficace: «La miseria genera odio». Ma quali sono i contorni della proposta laburista? E perché, non avendo funzionato negli Stati Uniti, la scommessa dovrebbe funzionare stavolta?

Il Budget del 30 ottobre prevede un incremento della tassazione di circa 20 miliardi di sterline all’anno per i prossimi cinque anni. A pagare saranno i più abbienti attraverso, inter alia, una tassa sui guadagni di capitale, una tassa sulle public schools (a dispetto del loro nome, si tratta di scuole private), il ripristino dell’imposta di successione sui terreni dal valore superiore al milione di sterline e un incremento della national insurance che i datori di lavoro pagano per conto dei lavoratori. A questo incremento della tassazione si aggiunge l’allentamento di alcune regole di rigore fiscale che i precedenti governi si erano autoimposti, e che dovrebbe consentire maggiori margini di manovra in tema di disavanzo. Il tutto per dirottare investimenti soprattutto nel settore sanitario e in altri servizi pubblici – la scuola, per esempio – ridotti ai minimi termini da oltre un decennio di austerità.

Quelle appena descritte sono misure che, più che prefigurare un ritorno al tax and spending degli anni Settanta, sembrano un (parziale) ripensamento delle politiche di austerità perseguite dai governi conservatori dopo la crisi finanziaria del 2008. Tali politiche partivano dal presupposto che la crisi finanziaria fosse stata la conseguenza di un incremento del debito pubblico, di cui invece era la causa ultima, e che quindi andasse superata tagliando selvaggiamente la spesa pubblica. In molti, a sinistra, hanno criticato il primo Budget laburista per la sua timidezza, facendo notare che, per esempio, Reeves non ha toccato l’imposta sui redditi e rimane ancorata al feticcio del rigore di bilancio per compiacere i mercati finanziari. La verità, come spesso accade in questi casi, sta nel mezzo. Mentre i provvedimenti dello scorso ottobre cambiano il segno della politica economica in Gran Bretagna, lo fanno all’insegna di un gradualismo che rappresenta la cifra politica del partito laburista sotto Keir Starmer, e risponde al fatto che, storicamente, sui laburisti britannici incombe l’onere della prova quando si tratta di dimostrare la loro competenza in materia economica. Eppure, nonostante la cautela, Reeves col suo Budget ha rotto con il passato e ha dimostrato di voler rilanciare l’economia e affrontare le sfide che il cambiamento climatico mette di fronte al Regno Unito. D’altra parte, già quando era all’opposizione, l’allora cancelliera ombra dichiarò che il suo arrivo a Downing Street avrebbe chiuso l’era dello Stato minimo. In quell’occasione, citando Karl Polanyi, Reeves ricordò come l’economia di mercato, abbandonata a se stessa, finisca per minare le basi della crescita economica e provocare dei «contro-movimenti» capaci di mettere a rischio l’ordinamento democratico.

Questi sviluppi nel Regno Unito vanno interpretati come segnali di speranza in un mondo che, dopo il voto americano di novembre, sbanda a destra e si appresta a testare la tenuta del modello di governo liberaldemocratico. Detto ciò, è innegabile che l’esperimento di Starmer e Reeves somigli da vicino a quello di Biden che, quattro anni fa, propose un programma di politica economica fondato su tax and spending e politiche industriali aggressive (si pensi soprattutto all’Inflation Reduction Act). Capire le ragioni per cui la scommessa di Biden è fallita è cruciale per comprendere come evitare che anche quella di Starmer e Reeves vada incontro alla stessa sorte.

Capire le ragioni per cui la scommessa di Biden è fallita è cruciale per comprendere come evitare che anche quella di Starmer e Reeves vada incontro alla stessa sorte

Perché gli Stati Uniti e, soprattutto, gli Stati della cintura industriale (il cosiddetto Rust Belt rappresentato dal Michigan, dalla Pennsylvania e dal Wisconsin), che dopo aver scelto Trump nel 2016 erano tornati ai democratici nel 2020, ed erano stati premiati da Biden con scelte volte alla creazione di lavoro nell’industria legata alla green economy, sono ritornati da Trump, o hanno disertato il voto? Ovviamente non c’è una risposta semplice a tale quesito. Tuttavia, alcune ipotesi si possono avanzare e, ben inteso, una non esclude necessariamente le altre. Non mancano interpretazioni di tipo culturale, o legate a scelte di politica internazionale, ma in questa sede ci soffermeremo su questioni di politica economica e su tre spiegazioni emerse dal dibattito post-elettorale.

La spiegazione più diffusa si è concentrata sull’inflazione che, tra il 2021 e il 2022, a seguito delle distorsioni post-pandemiche e del rincaro dell’energia dovuto alle sanzioni alla Russia che hanno fatto seguito all’aggressione all’Ucraina, ha raggiunto nelle economie più avanzate dei livelli che non si vedevano da prima dell’inizio della «grande moderazione» (anni Ottanta-Novanta). L’inflazione e il carovita avrebbero impedito al ceto medio americano, già impoverito dalla crisi finanziaria del 2008, di apprezzare un’economia in robusta salute laddove si guardi a variabili quali il livello dell’occupazione, la crescita del Pil, l’andamento dei mercati borsistici e l’innovazione prodotta negli ultimi anni. È vero che l’inflazione è rientrata entro margini accettabili nei mesi precedenti al voto, ma il rientro non sarebbe stato tale da convincere gli elettori del buon funzionamento della Bidenomics.

Una variazione su questo tema, che introduce in questa spiegazione di tipo strutturale una valutazione più propriamente politica, mette sul banco degli imputati l’annacquamento dei provvedimenti dell’amministrazione Biden che, per far passare la sua legislazione in un Congresso nel quale poteva contare su una maggioranza esigua, ha dovuto rinunciare a un certo radicalismo. Mentre le scelte produttiviste e di politica industriale sono grosso modo passate, e hanno prodotto il già citato Inflation Reduction Act, i tentativi di mantenere il sistema emergenziale di benefici e sostegno ai più poveri che era stato creato in seguito al Covid sono stati bocciati. L’inflazione, come abbiamo detto prima, avrebbe fatto il resto.

Un’ultima, più inquietante, spiegazione, chiama in causa la polarizzazione della politica statunitense, e il fatto che un’ampia fetta di americani – quelli sintonizzati su Fox News o, nel caso dei più giovani, quelli che consumano podcast o altri contenuti online, in particolare la piattaforma X, di Elon Musk – fosse ideologicamente avversa a Biden e quindi incapace di apprezzare i progressi dell’economia. Per questa metà degli Stati Uniti è stato naturale credere alla storia del collasso della grande potenza americana e a Donald Trump come unico antidoto al declino. La parabola personale di Biden, testardamente convinto di poter affrontare una campagna elettorale dispendiosa, nonostante chiari segnali di un decadimento fisico e mentale che è clamorosamente emerso nel corso del primo dibattito presidenziale, non ha fatto altro che rafforzare l’idea del declino – un po’ come la famosa foto di Jimmy Carter stremato dalla fatica durante una gara podistica prima delle elezioni del 1980, che rese emblematiche non solo le difficoltà di un altro presidente democratico che non riuscì a farsi rieleggere, ma anche il (presunto) declino degli Stati Uniti.

Quali lezioni si possono trarre dalla vicenda statunitense? E su quali fattori si basa la speranza che, nonostante le chiare similitudini, l’esito dell’esperimento britannico sia diverso da quello americano?

Un certo grado di radicalità nelle scelte di politica economica può pagare: politiche di spesa pubblica che agli inizi del 2000 erano considerate tabù oggi non spaventano né i mercati finanziari, né gli elettori

La lezione più importante è che un certo grado di radicalità nelle scelte di politica economica può pagare, in termini sia economici sia elettorali. Politiche di spesa pubblica che agli inizi del 2000 erano considerate tabù oggi non spaventano né i mercati finanziari, che non hanno fatto registrare particolari fibrillazioni dopo il Budget, né gli elettori, molti dei quali sono stati scottati dall’austerità dell’ultimo quindicennio. Quanto all’intervento dello Stato in economia, un provvedimento molto popolare del governo laburista, varato prima e al di fuori del Budget, è consistito nella rinazionalizzazione di alcune linee ferroviarie che, a trent’anni dalle privatizzazioni volute da Thatcher, versano in condizioni pietose. Lungi dal cedere su questo fronte, il governo laburista dovrebbe dare più sostanza alla promessa elettorale to tax wealth, not work (tassare la ricchezza, non il lavoro), ricordando che la missione storica dei laburisti non è stata solo orientata alla crescita economica, ma anche alla giustizia e al progresso sociale.

L’altra lezione che viene dagli Stati Uniti è che una leadership credibile e autorevole conta – e molto. Su questo punto Starmer e la sua squadra dovranno migliorare, perché i primi mesi di governo si sono caratterizzati per una serie di errori di comunicazione e di gaffe – dovuti in parte all’inesperienza, in parte a un eccesso di cautela – che, se non corretti rapidamente, rischiano di lasciare il segno.

Quanto alle speranze, la prima riguarda lo stato del Welfare nel Regno Unito che, per quanto affievolito da oltre un decennio di tagli, non è certo inesistente come quello statunitense. Una volta rivitalizzato, con il potenziamento dei servizi sanitari, per esempio, i benefici dovrebbero essere evidenti a una larga maggioranza della popolazione. La seconda è che il Regno Unito sia meno polarizzato sul piano politico rispetto agli Stati Uniti, una condizione che dovrebbe permettere agli elettori di riconoscere, qualora dovesse materializzarsi, un miglioramento dell’economia. Su questo punto, però, è lecito temere che i buoi siano già usciti dalla stalla. Si pensi alle violenze e ai disordini di questa estate, fomentati dall’estrema destra dopo che un attacco nella città di Southport, vicino Liverpool, falsamente attribuito a un immigrato, ha causato la morte di tre bambini. Nei giorni successivi a quell’incidente, mentre da Londra a Belfast l’estrema destra organizzava manifestazioni violente contro moschee e centri di accoglienza per immigrati, e il governo britannico dispiegava misure di estrema durezza nei confronti dei manifestanti, Elon Musk dagli Stati Uniti soffiava sul fuoco della protesta scrivendo su X dell’inevitabilità di una «guerra civile» in Gran Bretagna.

Anche l’elezione della nuova leader del partito conservatore, Kemi Badenoch, sembra essere un passo verso la polarizzazione del panorama politico britannico. La leader dell’opposizione, la cui elezione è stata annunciata nei giorni immediatamente successivi alla presentazione del Budget, ha parlato del documento come si trattasse di un Piano quinquennale sovietico del Secondo dopoguerra. Essa ha inoltre salutato con entusiasmo l’elezione del presidente Trump, facendo pressione su Starmer perché inviti presto il neo-eletto presidente, in segno di stima e rispetto per il suo progetto politico.

Insomma, la sfida che aspetta i laburisti britannici non è delle più facili, ma, con Trump alla Casa Bianca e un’Europa sempre più spostata verso destra, c’è da sperare che la scommessa sia vinta e che il Regno Unito indichi la rotta verso la disintossicazione della vita pubblica e del discorso politico, favorita da migliori condizioni economiche generali e da una diminuzione delle diseguaglianze.