È dunque il turno di François Bayrou. Il settantatreenne già candidato alle presidenziali del 2002, 2007 e 2012, vero e proprio simbolo del centrismo di tradizione democratico-cristiana, ha l’arduo compito di trovare una via d’uscita per la crisi politico-istituzionale nella quale si trova Parigi da oramai sei mesi, dopo lo scioglimento anticipato dello scorso giugno e la storica mozione di censura all’esecutivo Barnier. Stiamo parlando di uno dei politici più esperti dell’attuale V Repubblica (già ministro dell’Educazione nazionale nei governi Balladur e Juppé tra il 1993 e il 1997), anima cristiana e social-umanista dell’Udf giscardiano, deciso a non “annullarsi” nell’Ump a inizio XXI secolo e fondatore del centrismo autonomista del Modem.

Dopo alcune critiche iniziali, Bayrou è stato uno dei principali sostenitori della candidatura Macron nel 2017. Tra la prima elezione e le successive legislative è scelto come ministro della Giustizia. Ministero che deve però rapidamente abbandonare per lo scandalo legato al presunto utilizzo di fondi europei per pagare assistenti parlamentari in patria (situazione archiviata per assenza di prove, ma con un processo d’appello all’orizzonte). È però riduttivo ritenerlo un fedelissimo di Emmanuel Macron. Il nuovo inquilino di Matignon non ha mai mostrato particolare soggezione nei confronti del vertice dell’Eliseo, pur rimanendo convinto del primato presidenziale, imprescindibile nella lettura gaullo-mitterrandienne della V Repubblica.

È riduttivo ritenerlo un fedelissimo di Emmanuel Macron. Il nuovo inquilino di Matignon non ha mai mostrato particolare soggezione nei confronti del vertice dell’Eliseo, pur rimanendo convinto del primato presidenziale

Il primo elemento da sottolineare quando si valutano le possibilità concrete di riuscita dell’opzione Bayrou riguarda la fase di eccezionalità che le istituzioni della V Repubblica stanno vivendo. Bayrou è il quarto primo ministro del 2024. Le dimissioni di Elisabeth Borne e l’arrivo a Matignon di Gabriel Attal sono infatti di metà gennaio. La sconfitta macroniana alle elezioni europee e lo scioglimento hanno poi condotto al faticoso e fallimentare tentativo di Michel Barnier e oggi tocca al sindaco di Pau e biografo di Enrico IV. Se si osserva la storia della V Repubblica per trovare un presidente che abbia cambiato quattro Primi ministri bisogna risalire al secondo settennato di François Mitterrand tra il 1988 e il 1995 (Rocard, Cresson, Bérégovoy e Balladur), ma appunto in sette anni all’Eliseo. Per citare altri due casi che certificano il carattere straordinario della situazione, Charles de Gaulle in dieci anni di presidenza cambia tre primi ministri e addirittura Nicolas Sarkozy, nei suoi cinque anni all’Eliseo, ha sempre mantenuto al suo fianco François Fillon. Per trovare una situazione di questo genere occorre andare con la memoria al 1934, anno delicato per le istituzioni dell’allora III Repubblica, quando tra assalto delle leghe al Parlamento e affaire Stavisky Camille Chautemps, Edouard Daladier, Gaston Doumergue e Pierre-Etienne Flandin transitano per palazzo Matignon nello stesso anno.

Un secondo punto di riflessione osservando l’attuale congiuntura è quanto sia sicuramente corretto porre l’accento sullo scioglimento anticipato voluto da Macron nel giugno scorso, ma come sia ugualmente importante indagare le radici di medio lungo periodo dell’attuale crisi transalpina. Ebbene si tratta di una crisi che viene da lontano e paradossalmente proprio Macron, con la sua importante vittoria del 2017, con il suo slogan “né di destra, né di sinistra” (o anche “allo stesso tempo di destra e di sinistra”), era parso esserne la potenziale soluzione. Se si va un minimo al di là della contingenza, è possibile notare che da inizio anni Novanta dello scorso secolo il Paese è attraversato da una crisi identitaria, i cui estremi sembrano essere il rapporto con il processo di costruzione europeo e il sempre meno performante sistema di integrazione (ben evidenziato dalle banlieues incandescenti e da una scuola pubblica non più veicolo meritocratico di ascesa sociale). In questa lettura momenti chiave diventano allora il referendum sul Trattato di Maastricht del 1992 (vittoria risicata del “sì” nonostante un massiccio sostegno delle forze politiche dell’area di governo), il voto presidenziale del 2002 (con il candidato dell’allora Fn al ballottaggio e l’assenza di quello socialista penalizzato dal moltiplicarsi di candidature a sinistra) e il “no” referendario al Trattato costituzionale europeo del maggio 2005 al quale fa seguito poi, nell’autunno dello stesso anno, la prima ribellione globale delle periferie. In un contesto di questo genere occorre poi mettere in rilievo il “doppio suicidio” perpetrato a sinistra come a destra da parte delle forze politiche tradizionalmente architravi della V Repubblica: il Ps impedendo la ricandidatura ad Hollande si è consegnato nelle mani degli Insoumis di Mélenchon e i postgollisti affossando la candidatura Juppé e optando per quella Fillon, hanno contribuito non poco all’affermarsi alle presidenziali del 2017 dei due outsiders Macron e Marine Le Pen. Tenuto conto di tutto ciò e correttamente giudicata la parabola discendente di Macron dalla sua rielezione (già problematica) del 2022, si può legittimamente dichiarare la “morte cerebrale” del macronismo ma non altrettanto si può dire di quell’ampio spazio politico centrale schiacciato a destra dal radical-populismo del Rn e a sinistra dal gauchismo altrettanto populista de LFi. Chi lo occuperà prossimamente?

Un terzo elemento sul quale non mancano le riflessioni dei più attenti storici, giuristi e politologi riguarda la natura della crisi in atto. Si tratta o meno di una crisi di regime? È l’impianto istituzionale a essere in discussione? Nell’epoca delle “maggioranze impossibili” e della crisi delle culture politiche tradizionali piuttosto che puntare il dito sull’impianto istituzionale, si dovrebbe forse riflettere sulla pratica istituzionale, che sta attraversando un periodo di appannamento. Da un lato non mancano gli anticorpi, individuabili all’interno della natura costituzionale stessa della V Repubblica. Potrebbe essere incentivata, ad esempio a partire dagli articoli 20 e 21, una lettura “primo-ministeriale” della V Repubblica, una sorta di stabilizzazione, seppure temporanea, della coabitazione, o quella “coabitazione famigliare” coniata da Duverger per descrivere il rapporto Mitterrand-Rocard.

Si potrebbe poi lavorare sull’introduzione di quote consistenti di proporzionale, così da disincentivare soprattutto a sinistra il potere di ricatto delle estreme per l’elezione dei singoli deputati di area riformista. Quello che è impossibile invece da inventare artificialmente è un parlamentarismo che la V Repubblica ha volutamente e anche tecnicamente disincentivato a partire dal dettato costituzionale. Chi oggi parla della necessità di introdurre una “cultura del compromesso” e un primato dell’Assemblée nationale dimentica che la vera cesura tra IV e V Repubblica si è tutta giocata sull’antiparlamentarismo gollista delle origini, temperato nell’evoluzione successiva (vedi riforma del 2008 in particolare), che rimane il cardine del funzionamento quintorepubblicano. Oggi l’Assemblée nationale manca delle possibilità tecniche di esercizio di un suo potenziale primato, sottoposta a quello dell’esecutivo (governo e presidente della Repubblica).

Un ultimo dato di riflessione deve essere dedicato alla contingenza. Sbilanciarsi ora sulle possibilità di Bayrou, se siano maggiori o minori rispetto al fallimentare tentativo di Barnier, sarebbe insensato. Si possono però evidenziare alcuni passaggi relativi a come egli è giunto a Matignon e rispetto alle sue possibilità almeno teoriche.

Le indiscrezioni parlano di una scelta che non era caduta sul politico centrista. Macron lo aveva convocato per comunicargli l’ingresso al governo come numero due del fedelissimo ex ministro della Difesa Sébastien Lecornu. Bayrou avrebbe a quel punto “rovesciato il tavolo” e minacciato di abbandonare il presidente. Se, come pare, si tratta di una ricostruzione veritiera, Bayrou si presenta come prodotto di un atto fondativo volontarista e dunque piuttosto legittimante. Peraltro, come già ricordato in apertura, il leader centrista è sempre stato il primo e più potente sostenitore del presidente, ma mai il primo dei fedeli macroniani. Le critiche, anche pubbliche, non sono mai mancate. Da non trascurare anche la rinuncia a entrare nel governo Attal, in polemica soprattutto sulle politiche educative.Nelle sue prime dichiarazioni da primo ministro, Bayrou ha parlato di un governo di interesse generale, che dovrebbe integrare il meglio della destra, del centro e della sinistra riformiste e liberali

Interessante è anche come Bayrou si è presentato nelle sue prime dichiarazioni da primo ministro designato. Ha parlato di un governo di interesse generale, che dovrebbe integrare il meglio della destra, del centro e della sinistra riformiste e liberali. E ha inoltre anticipato la volontà di incontrare tutte le forze parlamentari in ordine decrescente rispetto al loro peso numerico all’Assemblea nazionale (dunque partendo dal Rn, la compagine più ampia a Palais Bourbon, con LFi che ha dichiarato la volontà di non presentarsi all’incontro, attendendo il neo primo ministro all’Assemblea nazionale). Riguardo ai potenziali rapporti con le differenti formazioni politiche occorre ricordare che rispetto alla destra postgollista non mancano, almeno teoricamente, le possibili frizioni. E questo perché Bayrou rappresenta sin dalla nascita del Modem il centro che non ha accettato di “sciogliersi” in un centro-destra più ampio e anche portatore del “peccato originale” del 2012, quando invitò a votare Hollande nel ballottaggio con Nicolas Sarkozy. Un conto aperto che l’ex presidente della Repubblica, e occorre ricordarlo grande sostenitore dell’ingresso dei Lr nell’area di governo e di sostegno a Macron, non ha mai superato.

Un’ultima considerazione riguarda l’attitudine dei socialisti nei confronti del governo Bayrou. Dopo alcune dichiarazioni nei giorni immediatamente successivi alla caduta di Barnier, Olivier Faure sembra avere smorzato i toni. È quindi forse eccessivo affermare che il Ps abbia fatto un passo deciso fuori dal Nouveau front populaire. L’impressione è però che un esecutivo più equilibrato verso il centro, se non verso la sinistra, potrebbe spingere i socialisti verso la scelta della “non censura”. Peraltro i vari Hollande, Glucksmann, Faure, Delga, Cazeneuve hanno bisogno di tempo per tentare di rafforzare uno spazio socialdemocratico e riformista in grado di competere con LFi in vista delle presidenziali del 2027 e questo potrebbe essere una garanzia di durata per Bayrou.

Il riferimento alla fine del secondo quinquennato di Macron può sembrare ad oggi azzardato e probabilmente lo è. Un dato non deve però essere dimenticato. Se Bayrou dovesse riuscire a mettere in piedi una legge di bilancio in grado di ottenere l’astensione socialista (oltre al sostegno del cosiddetto socle commun che ha sostenuto Barnier), sarebbe numericamente al sicuro dalla censura. E se a quel punto riuscisse ad avvicinarsi ai mesi estivi, tornerebbe in gioco l’arma dello scioglimento nelle mani dell’inquilino dell’Eliseo. Un potente disincentivo, per i singoli parlamentari, a censurare il governo Bayrou.

Tutto prematuro? Probabilmente sì. Oggi possiamo contare soltanto sull’interessante definizione che Bayrou ha dato di sé stesso e del suo ruolo: “un primo ministro in pieno esercizio e di complementarietà rispetto al presidente”. Una volta composto il governo, si vedranno i reali margini di manovra del nuovo inquilino di Matignon. Si potrà passare dalla teoria alla pratica ed esprimere qualche giudizio più ponderato. Non rimane che attendere.