C’è un gran discutere sul problema del rilancio in politica di un “centro” che alcuni ritengono possa essere un elemento equilibratore, forse anche riformista dinamico; cosa che altri, più o meno in maniera interessata, negano risolutamente. Certo, l’etichetta è abbastanza ambigua, per non dire equivoca: alternativa alle radicalizzazioni di destra e di sinistra per moderarle dall’interno, o autonoma proposta che trascende la dinamica conservazione/progresso?

La questione di fondo è dove vada cercato questo “centro”, se nei partiti esistenti o promuovendo la formazione di un nuovo soggetto che da questi si differenzi. Se volessimo riproporre un po’ di storia politica potremmo ricordare due panorami. Il primo è quello che a metà Ottocento suggeriva, in alternativa alla secca divisione destra/sinistra, lo svilupparsi di una componente moderata che potesse consentire un dialogo fra i rispettivi centri, fino al punto di promuovere in casi particolari una loro alleanza per porre un argine comune agli estremismi di destra e di sinistra. Quando una tale proposta venne teorizzata, come “congiunzione dei centri” (in Francia), o come “trasformazione dei partiti” (in Italia), venne etichettata come “opportunismo” o come “trasformismo”, termini che sono rimasti con valenza negativa nel linguaggio politico. Quando venne praticata negando che venisse accettata, ha costruito occasioni di consenso allargato e di sviluppo.

Il secondo scenario è quello che vede sulla scena, ma stiamo parlando del Secondo dopoguerra, partiti di massa che vogliono caratterizzarsi come di centro e che in quanto tali conquistano la guida politica del loro Paese. È il caso notissimo della Dc in Italia, ma anche quello della Cdu in Germania. Il primo dissoltosi dopo quasi un cinquantennio anche sotto la spinta di una critica diffusa proprio a questa sua natura peculiare (sebbene la causa principale fosse il contemporaneo venir meno di un particolare contesto sociale e di una classe politica capace di adeguarsi a questo cambiamento), il secondo in astratto ancora centrale nella politica tedesca, ma avendo subìto una profonda trasformazione che qui non è possibile analizzare.

Il centro come alternativa alle radicalizzazioni di destra e di sinistra per moderarle dall’interno, o autonoma proposta che trascende la dinamica conservazione/progresso?

Torniamo su questi temi perché si è riacceso il dibattito sulla mancanza o meno, e sulla possibile presenza/creazione, di un “centro” come elemento necessario per rinvigorire una politica italiana che a molti appare immiserita, stretta com’è fra scontri legati da un lato alla dimensione politicante e dall’altro al prevalere di dibattiti culturali (?) dominati dalle contrapposizioni di maniera che ripropongono vecchie idolatrie novecentesche.

Ci si potrebbe chiedere, per rimanere al quadro che abbiamo delineato in apertura, se e quanto esistano correnti centriste all’interno dei partiti attualmente presenti nel nostro contesto politico. Ovviamente, essendo il termine, come già abbiamo detto, ambiguo, consideriamo ascrivibili a questo quadro quelle componenti che, più o meno decisamente, dichiarano di contrapporsi alla radicalizzazione a cui si ispirano molti partiti politici. È il caso, nell’ambito della coalizione di destra-centro, attualmente al governo, di Forza Italia e di Noi moderati. Sebbene siano due formazioni che sono piuttosto incerte nel denunciare le derive radicali dei loro alleati, si può rilevare che puntano ad allargare lo spazio del loro consenso elettorale proprio presentandosi come elementi che quelle derive tengono a freno.

La situazione è più difficile da analizzare nell’ambito della sinistra-centro che si colloca all’opposizione. La presenza di due piccole formazioni che si definiscono di centro, Italia Viva e Azione, entrambe partiti personali, è penalizzata dal loro marginale successo a livello elettorale. Il problema si pone in termini particolari per quanto riguarda il Partito democratico. Nato in teoria per far convergere in uno stesso contenitore tradizioni riformiste diverse che si riallacciavano a precedenti filoni (comunista, democristiano, laico-liberale), ha sempre dovuto fare i conti con le ambiguità che il termine riformismo ha conosciuto nella storia delle nostre culture politiche: la svalutazione come versione ammorbidita e tentennante delle proposte di riforma radicale.

Questa situazione del Pd è in un certo senso esplosa con l’arrivo alla segreteria di Elly Schlein sulla spinta di un moto radical-movimentista in buona parte esterno ai quadri esistenti e la conseguente prevalenza nella comunicazione pubblica e nella gestione di quel partito di un approccio che tendeva a marginalizzare le componenti in senso lato riformiste.

Nel complesso la situazione delle componenti centriste nei partiti che dominano l’attuale quadro della politica-politicante non è tale da dare il tono all’andamento attuale del confronto che rimane dominato dalla ricerca di un bipolarismo fortemente radicalizzato (non tutti i bipolarismi sono così) per uscire dal quale si invoca da più parti la costruzione di un “partito di centro” capace di evitare ciò che viene considerato come una deriva assai poco favorevole a un qualche tipo di idem sentire de republica necessario in tempi di complessa transizione storica.

Non sembra alle viste che le componenti centriste all’interno dei partiti possano guadagnare un potere di indirizzo, sia per la debolezza della loro progettualità culturale, sia per le dinamiche imposte dall’attuale sistema elettorale

In astratto si potrebbe anche pensare che le componenti centriste o riformiste all’interno dei partiti possano guadagnare un potere di indirizzo, ma in concreto ciò non sembra alle viste, sia per la debolezza della loro progettualità culturale, sia per le dinamiche imposte dall’attuale sistema elettorale: due elementi che concorrono a tenere ancorato il quadro alla esasperazione dello scontro sull’asse destra/sinistra, quadro ben supportato da tutto un contesto di “influencer” che in esso hanno fatto confortevoli nidi.

Al momento, almeno in una parte non piccola dell’opinione pubblica che partecipa alla vita politico-culturale, si pone così la questione concreta di come si possa arrivare alla creazione di una formazione di centro in grado di operare con una certa efficacia nel contesto attuale. Prevalentemente il tema è affrontato chiedendosi chi possa assumersi il ruolo di “federatore” dell’area che non si sente rappresentata dai partiti strutturati come governo o come opposizione.

Le osservazioni che mi pare possibile avanzare riguardo a questo fenomeno sono le seguenti. La prima è che sia difficile partire dalla ricerca di un federatore, per la semplice ragione che mancano i soggetti federabili. Il rinvio che si fa all’esperienza dell’Ulivo di Romano Prodi è impropria, almeno da un punto di vista. La riuscita della candidatura di Prodi alla guida della coalizione è dubbio sarebbe riuscita se il Pds guidato da D’Alema non avesse appoggiato la tesi del “papa straniero” (secondo le interpretazioni maligne pensava di poterlo condizionare). Solo molto più tardi ci fu la piena legittimazione di Prodi con le primarie.

Nel caso di cui oggi si discute non riesco a vedere soggetti già presenti che siano disponibili a farsi federare da un papa più o meno straniero e un ennesimo cartello-ammucchiata elettorale non ha chance di successo. Bisognerebbe immaginare la presenza di un personaggio fortemente carismatico di suo, il che significa capace di generare “sequela” attorno alla sua figura. In ogni caso andrebbe ricordato che i movimenti che nascono attorno a figure carismatiche impiegano tempi lunghi a espandersi e a conquistare il peso specifico che ne fa attori di rilievo. Ora, a prescindere dal fatto che i carismatici non si inventano a tavolino o dalle cattedre, mediatiche e non (rileggersi Max Weber), non sembra ci siano i tempi per affrontare la classica “traversata del deserto” (quando la fece De Gaulle, che pure di carisma ne aveva, durò un buon decennio…). Altra cosa è la ricerca di un ipotetico federatore del centro da incoronare per superare l'impostazione per cui a essere candidato premier della sinistra-centro non debba più essere la/il leader del partito elettoralmente più consistente (leggi: Elly Schlein) aprendo invece la via a primarie di coalizione in cui più d'uno potrebbe mettere in campo la mobilitazione del proprio cosiddetto “popolo” (a cominciare da Conte). Sarebbe però un giochetto da politica politicante con scarso respiro.

Chi seriamente vuol misurarsi nella costruzione del nuovo partito di centro deve dunque muoversi a partire da una enclave già esistente, sufficientemente individuabile e strutturata. Per questa ragione torna in campo l’ipotesi che questa possa essere il mondo cattolico. È ragionevole riconoscere che in quest’ambito sia presente, per certi versi sopravvissuta, una classe dirigente, e che la Chiesa abbia mantenuto un suo circuito che ne fa ancora un’agenzia sociale, per quanto assai ridimensionata. Ciò che a me pare dubbio è che intorno a questa ci sia oggi una enclave sociale abbastanza omogenea da essere mobilitabile in quanto tale e perciò in grado di fornire a dei gruppi dirigenti quello zoccolo forte intorno al quale raccogliere poi le membra disperse di quell’opinione pubblica che si sta staccando dall’età delle utopie.

Il mondo cattolico è tutt’altro che un monolite, ma soprattutto al momento, a mio modesto giudizio, non dispone di una cultura omogeneizzante. Basterebbe ricordare le molte tensioni impolitiche (mi si consenta la franchezza) che circolano in materia di pacifismo e organizzazione della difesa militare, di interpretazione dei fenomeni migratori, di connessioni con l’ambientalismo, di rapporto con le trasformazioni economiche e relativi impatti sociali. Ci sono problemi strutturali con cui ci si dovrebbe confrontare, a partire dal fatto che esistono tensioni, positive, fra l’etica della carità e l’etica della responsabilità collettiva in capo alle istituzioni: ed è solo il più banale degli esempi.

Non credo che ci siano disponibilità a conferire alle strutture ecclesiastiche compiti di direzione dell’evoluzione politica: vescovi e clero è bene continuino nei loro compiti religiosi e pastorali senza tornare a operazioni di direzione politica che in una società secolarizzata non sarebbero accettate neppure da gran parte dei cattolici.

Mi sembra di poter concludere che la costruzione di una presenza riformista, che solo per pigrizia mentale si può definire di centro nel senso moderato del termine, vada innanzitutto costruita come una forte operazione culturale. Se non disponiamo di una cultura che possa creare consenso intorno a un modo di interpretare la transizione che viviamo collocandosi fuori dagli schemi dei massimalismi radicaloidi di destra e/o di sinistra, non si consolida il terreno su cui far approdare una parte consistente dell’opinione pubblica e di conseguenza della classe politica.

Che questa nasca all’interno dei partiti oggi sulla scena, oppure sia espressione di nuove forme di aggregazione presenti nella dinamica sociale, oppure, cosa più normale, che scaturisca dalla dialettica fra le due componenti lo deciderà lo svilupparsi degli eventi. Se le classi dirigenti e pensanti (i due aspetti non sempre convivono) lavorassero per far maturare l’humus riformatore che ci manca, si potrebbe sperare con fondamento che possano arrivare anche i leader necessari, federatori o innovatori che siano.