In Tunisia, si congratulano i media locali, il presidente Kais Saied è stato rieletto per un secondo mandato dalla “stragrande maggioranza dei cittadini che il 6 ottobre si sono recati alle urne”. La formula occulta il fatto che i cittadini in questione sono appena il 28,8% degli aventi diritto: è tra questa minoranza di votanti che Kais Saied ha raccolto il 90,7% dei suffragi, a fronte di un 7,35% per Ayachi Zammel e dell’1,97% per Zouhaier Maghazoui, gli unici altri due candidati in lizza.

Era difficile aspettarsi risultati diversi. “Appena qualcuno decide di candidarsi viene aperto un fascicolo su di lui” era il commento sarcastico che circolava sottovoce. Tra i 17 potenziali concorrenti, eliminati uno dopo l’altro, generalmente per via giudiziaria, figuravano leader di spicco delle principali anime politiche del Paese – il Rcd di Ben Ali con Mondher Znaidi, il suo erede Pdl di Abir Moussi, la corrente islamica rappresentata da Abdellatif Mekki, e la sinistra laica del Cpr con Imed Daimi –, ciascuno in grado, nonostante le loro profonde differenze, di far convergere il voto dell’opposizione al ballottaggio. A evitare questo rischio l’Isie, la vecchia authority indipendente per le elezioni, diventata, dopo il colpo di Stato, di nomina presidenziale, aveva respinto tutte e quattro le candidature – per quanto i ricorsi di Mekki, Znaidi e Daimi fossero stati accolti dal tribunale amministrativo – lasciando infine in corsa, insieme al presidente uscente, soltanto Zammel, uomo d’affari poco conosciuto, e Maghazoui, un panarabista, già sostenitore di ferro di Kais Saied, che molti sospettano gli abbia fatto semplicemente da spalla. 

Nel Paese comunque già da tempo erano venute a mancare le condizioni minime necessarie allo svolgimento di elezioni democratiche. La libertà di stampa è crollata, secondo la classifica mondiale di Reporters Sans Frontières, dal 72° posto nel 2019 al 118° nel 2024. Il decreto legge 54/2022 punisce la diffusione di false informazioni in termini tanto vaghi da venire sistematicamente applicato a ogni critica. L’indipendenza della magistratura è stata intaccata da pesanti epurazioni. I reati di opinione, rubricati sotto la voce “complotto contro la sicurezza dello Stato”, vengono demandati ai tribunali militari.

Nel Paese già da tempo erano venute a mancare le condizioni minime necessarie allo svolgimento di elezioni democratiche

Era dunque logico prevedere che l’opposizione avrebbe mantenuto la linea del boicottaggio, già adottata nel 2022 in occasione del voto – senza quorum - per la nuova Costituzione (tasso di partecipazione al 30,5%) e il nuovo Parlamento (11,22%) e confermata nel 2023 per le elezioni locali (11,66%). Sorprendentemente invece da tempo era incominciata a circolare la voce che quella poteva essere l’occasione per “rovesciare la dittatura attraverso le urne”. Tale cambio di rotta rispetto alla posizione precedente – fermamente attestata sul principio dell’illegalità delle operazioni elettorali successive al colpo di Stato – veniva giustificato con l’appiglio formale secondo cui le disposizioni costituzionali relative alle elezioni presidenziali erano rimaste invariate rispetto a quelle del 2014. Mentre alla mancanza degli standard minimi per una campagna elettorale libera e competitiva stranamente non si faceva più cenno.

Certo i sondaggi, confermati dalle voci di strada, davano in crollo il consenso a Kais Saied. Due le lamentele principali: da un lato l’aumento del costo della vita e l’irreperibilità di beni primari quali il riso, lo zucchero, il caffè; dall’altro l’assenza di risultati concreti nel corso dei tre anni dopo il colpo di Stato, tutti dedicati alla sostituzione del vecchio impianto istituzionale con una raffica di provvedimenti volti a concentrare il potere nelle mani del presidente. Giuravano che non avrebbero più votato Kais Saied gli esponenti del ceto medio impiegatizio e intellettuale che lo avevano sostenuto con entusiasmo, convinti che dopo averli sbarazzati dagli islamisti avrebbe risanato una economia disastrata dal combinato disposto della rivoluzione, della crisi economica mondiale e del Covid. I giovani nel frattempo stavano riprendendo in massa la via dell’emigrazione clandestina, i liberi professionisti (medici, ingegneri) quella dell’emigrazione legale.

Su questo sfondo si sono svolti incontri di politici a Parigi, intorno all’ex presidente Marzouki, condannato in contumacia in Tunisia, e seminari di esperti a Washington, organizzati da Radwan Masmoudi, fondatore del Center for the Study of Islam and Democracy, con collegamenti di fuoriusciti di ogni tendenza. Ne è emersa però una spaccatura. Mentre un politico navigato come Néjib Chebbi, oppositore della prima ora di Ben Ali e leader del Fronte di salvezza nazionale, il cui fratello Issam è in prigione per “cospirazione contro lo Stato”, si opponeva alla partecipazione a una “mascherata elettorale”, esponenti di un arco politico che andava dai conservatori islamici di Ennahdha ai socialdemocratici laici di Attayar invitavano a votare ripetendo come un mantra: “Se arriviamo al ballottaggio Kais Saied perderà”. Un accorato appello “No boycott” è circolato a ridosso delle elezioni. Avrebbe dovuto far riflettere il fatto che a parte alcuni noti attivisti e prigionieri politici molti firmatari erano docenti, quadri, liberi professionisti, residenti all’estero e pensionati, perlopiù totalmente ignoti al grande pubblico. 

L’unico risultato di questa scelta è stato quello di portare il tasso di partecipazione al voto vicino al 30%: poco per parlare di democrazia, ma definito “accettabile” dai sostenitori di Kais Saied, e non clamorosamente lontano dal 35,6% delle ultime elezioni democratiche del Paese, le municipali del 2018. Esso incomincia inoltre ad avvicinarsi ai tassi di partecipazione in continua discesa delle nostre democrazie occidentali, configurando una normalizzazione della dittatura, che potrebbe presentarsi come “democratura” a una Ue che non chiede di meglio. A fronte di questo esito ci sono due domande da porsi. La prima: come mai tanti oppositori sono andati a votare? La seconda: come si spiega un tale errore di valutazione dell’opposizione?

Pressioni per indurre gli elettori a recarsi alle urne ci sono state, tant’è che i non votanti appaiono sulla difensiva. Una funzionaria impegnata in una Ong in un quartiere periferico racconta che prima di incontrare le donne della sua associazione si è dipinta l’indice con un pennarello blu, per simulare l’inchiostro indelebile in cui il votante deve intingere l’indice (per evitare voti plurimi). Una professoressa di liceo sente il bisogno di giustificarsi: “Non ho votato perché non ho avuto tempo… ero impegnata a scuola tutto il giorno. Se no sarei andata, è un dovere civico”. C’è anche chi ha cambiato bandiera e si giustifica debolmente, come Samia, ex simpatizzante di Abir Moussi, che dice: “Non avevamo scelta… alla televisione hanno detto che non votare era inutile… e gli altri non li conoscevo”. Oppure chi fa una marcia indietro convinta, come Jahida, ex simpatizzante di Ennahdha, che ha votato per Kais Saied perché “lui si oppone alle ingerenze straniere, al Fmi. E poi abbiamo bisogno di stabilità”. 

Tra gli oppositori convinti che sono andati a votare per Zammel, qualcuno, come Hind, ricercatrice, se la prende con il “boicottaggio”: “Non speravamo di vincere ma almeno di dare un segnale”. Qualcun altro, come Majdi, ex deputato di Attayar, ne fa una questione morale: “Era un atto di solidarietà dovuto ai prigionieri politici”.

Scarso rilievo è stato dato al fatto che ha votato solo il 6% dei giovani tra i 18 e i 35 anni, protagonisti indiscussi dell’elezione di Kais Saied nel 2019

Anche a prendere per buone queste motivazioni ex post, l’insuccesso resta totale: l’unico segnale dato è stato un segnale di debolezza e la solidarietà ha avuto per esito che cinque giorni dopo le elezioni Zammel si è preso un’ulteriore condanna di cinque anni per falsificazione delle firme di appoggio alla sua candidatura. Mohamed, ex consulente governativo, vicino a Rachid Ghannouchi e sostenitore della strategia del “rovesciare Kais Saied tramite il voto”, all’ultimo ha deciso di non votare. Oggi prova a spiegare il disastro: “Era circolato un sondaggio (di una società francese) che dava Kais Saied al 34% e Ayachi Zammel al 32%. E poi c’era la pressione dei familiari dei prigionieri politici. Volevano che si facesse qualcosa. È stato un voto totalmente emotivo, non razionale”. Conferma Hind: “L’influenza dei familiari dei prigionieri politici è stata determinante”. Un messaggio di origine incerta ha fatto molta presa. Racconta Kalthoum, pedagogista, non votante: “Ci è stato detto a più riprese: votare è un vostro diritto, non rinunciate a esercitarlo, mostrate che ci siete… Ho litigato su questo con mia sorella”. Non è da escludere che sia stato fatto circolare dagli stessi sostenitori di Kais Saied nelle fila di una opposizione che sembra sempre più lontana dal comune sentire della popolazione.

Scarso rilievo è stato dato al fatto che ha votato solo il 6% dei giovani tra i 18 e i 35 anni, protagonisti indiscussi dell’elezione di Kais Saied nel 2019. Nulla lascia prevedere che questo porterà a breve a quella “seconda rivoluzione” che è diventata la parola d’ordine degli insoddisfatti di ogni orientamento dopo il 2011. Ma alimenterà alle porte d’Europa un focolaio di disagio sociale, rancore e disperazione, e una crescente disillusione nei confronti delle promesse della democrazia occidentale, i cui possibili sbocchi sono facili da immaginare.