Nell’ottobre del 2020 l’«Economist» ha dedicato all’Italia un articolo dal titolo piuttosto evocativo (How the leopard lost its spots), in cui raccontava la decadenza del Belpaese, che stava scivolando verso l’irrilevanza economica. Il drammatico rallentamento della nostra crescita gli dava indubbiamente ragione. Fatto pari a 100 il reddito di un cittadino europeo, nel corso degli ultimi 25 anni quello di un italiano aveva perso ben 30 punti percentuali, passando da un valore di 126 nel 1995 a uno di 94 nel 2020 (si veda questa figura).
A meno di un anno da quella impietosa analisi, perciò, è sorprendente accorgersi che lo stesso settimanale oggi ci incorona «country of the year». Ben inteso, per i giornalisti inglesi non siamo diventati il Paese «più grande, più ricco o più felice» del mondo, ma più semplicemente quello con le prestazioni migliori nel corso del 2021. Le motivazioni del premio sono essenzialmente due: 1) la nostra reazione alla pandemia; 2) l’azione svolta dall’attuale governo per rimettere in carreggiata l’economia italiana.
Tutto merito di Draghi e delle vaccinazioni, quindi? Se un anno fa la notizia della scomparsa dell’Italia era parsa esagerata (rimando al mio L’Italia e il futuro possibile, «il Mulino», n. 1/21), lo è altrettanto oggi utilizzare l’«eccezionalismo» della crisi pandemica e dell’ennesimo «uomo della provvidenza» per spiegare la ripresa italiana.
Un atteggiamento più positivo verso l’Italia è piuttosto diffuso tra gli osservatori stranieri. Per rendersene conto basta vedere i titoli del “Financial Times”, le dichiarazioni di molti leader mondiali o le previsioni di crescita delle organizzazioni internazionali
Iniziamo con il dire che questo atteggiamento più positivo verso l’Italia è piuttosto diffuso tra gli osservatori stranieri. Per rendersene conto basta leggere i titoli del «Financial Times», o le dichiarazioni di molti leader mondiali (sono di ieri gli elogi di Ursula von der Leyen al nostro Paese), oppure ancora le previsioni di crescita stilate dalle organizzazioni internazionali. Anche sul fronte interno il clima dell’opinione pubblica, delle imprese e dei consumatori è decisamente migliorato rispetto a due anni fa, con un inatteso ritorno di fiducia verso il futuro (si veda F. Ramella e R. Sciarrone, Il futuro è tornato).
Ciò premesso, la tesi che intendo sostenere è molto diversa da quella del settimanale britannico, che attribuisce la gran parte del merito al nostro primo ministro. L’Italia oggi si trova di fronte a una vera e propria «giuntura critica» che offre una chance di rilancio al Paese. Qualcosa di molto diverso da un modesto rimbalzo economico dopo la crisi pandemica, o da una semplice reazione agli stimoli espansivi offerti dal governo e dalla Ue. Si tratta, piuttosto, di un tentativo più strutturale di correzione del nostro modello di sviluppo, che ha preso avvio dopo la grande recessione del 2008-2013.
Nel corso degli ultimi decenni, infatti, l’Italia ha seguito una via bassa alla competitività, basata principalmente sulla compressione dei costi salariali e la precarizzazione del mercato del lavoro. Il tasso di crescita si è così collocato quasi sempre al di sotto della media europea. Oltre all’enorme debito pubblico e al declino demografico, i motivi di tale rallentamento erano dovuti agli scarsi investimenti nell’innovazione e nel capitale umano, nella bassa qualità della regolazione pubblica e nel deficit di modernizzazione delle nostre infrastrutture. Tutto ciò si è tradotto in una dinamica della produttività particolarmente deludente, che neppure i bassi costi del lavoro (mediamente inferiori del 30% rispetto a quelli delle principali economie europee) hanno potuto compensare.
Insomma, alla vigilia della grande recessione avevamo una struttura produttiva fragile e un sistema di innovazione debole, che hanno reso l’Italia particolarmente vulnerabile alla crisi internazionale. Al termine di quest’ultima, nel 2014, il nostro Pil risultava inferiore di ben 8 punti percentuali a quello del 2008, mentre la Germania e la Francia erano cresciute, rispettivamente, del 5% e del 3%. Nel solo settore manifatturiero, il numero di addetti e il valore della produzione erano calati del 10% e le imprese operative addirittura del 14%.
La grande recessione ha costituito una game-changer, poiché ha dimostrato tutta l’inconsistenza della via bassa alla competitività e delle politiche neo-liberiste all’italiana
Una crisi così drammatica ha però innescato anche delle «dinamiche generative» e un ripensamento delle strategie competitive seguite dall’Italia negli anni precedenti. Da questo punto di vista la grande recessione ha costituito una game-changer, poiché ha dimostrato tutta l’inconsistenza della via bassa alla competitività e delle politiche neo-liberiste all’italiana. Non solo queste ultime hanno ridotto la competitività delle imprese e aumentato le disuguaglianze sociali, creando un terreno fertile per i populisti di casa nostra, ma hanno anche atrofizzato la domanda interna e la dotazione di beni collettivi per la competitività, rallentando così la modernizzazione economica, sociale e politica del nostro Paese. Una strategia incredibilmente miope per una economia avanzata, specialmente alla luce di un mercato globale e di una rivoluzione tecnologica che, al contrario, premiavano chi faceva investimenti di lungo periodo, puntando sull’innovazione, sulla qualità dei prodotti e sull’empowerment del capitale umano.
È su questo sfondo che la fase attuale può essere definita come una giuntura critica. Con questo termine, nella letteratura specialistica, si fa riferimento a momenti storici di relativa indeterminatezza strutturale, in cui si indeboliscono i meccanismi di riproduzione della path-dependency. Sono periodi in cui si allentano i vincoli derivanti dal passato, mentre si moltiplicano le scelte possibili. In altri termini, si amplia lo spazio per l’agency: buoni imprenditori politici ed economici possono prendere decisioni prima difficili o addirittura impossibili, producendo risultati inaspettati solo pochi anni prima. Si tratta, quindi, dell’apertura di una finestra di opportunità.
Oltre al miglioramento del clima tra gli osservatori internazionali e nell’opinione pubblica nazionale, quali indicatori economici suffragano questa ipotesi? Innanzitutto, quelli a breve termine. Per la prima volta dopo molti anni, la crescita del Pil e degli investimenti in Italia è superiore a quella delle altre economie europee. Non siamo però in presenza di un semplice rimbalzo rispetto alla crisi pandemica, poiché l’accelerazione negli investimenti fissi lordi ha preso avvio dopo la grande recessione, procedendo a una velocità molto sostenuta nella manifattura e, in particolare, in alcuni settori strategici (come quello della meccanica), dove si registrano incrementi superiori a quelli di altre grandi economie europee.
Lo stesso vale per le spese effettuate dalle imprese: a) nella ricerca e sviluppo, che contrariamente a quanto accadeva in passato, stanno crescendo a un ritmo superiore alla media europea; e b) nel finanziamento della ricerca universitaria dove negli ultimi anni, grazie ad alcune misure di incentivazione, gli investimenti delle aziende private sono addirittura quintuplicati, portandosi su valori che ci collocano ora al terzo posto in Europa.
I risultati iniziano a vedersi. Questo almeno è quanto si desume dai dati della «Community Innovation Survey», che la Ue conduce periodicamente per rilevare la capacità innovativa delle imprese europee. Nell’indagine del 2006, le aziende italiane che venivano classificate come innovative erano appena il 35%: 4 punti in meno della media europea e, addirittura, 26 in meno della Germania. Nel 2018 la percentuale italiana è cresciuta al 63%: 13 punti in più della media europea, 12 in più della Francia e appena 5 in meno della Germania. Una recente indagine condotta dal Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino, in collaborazione con il gruppo Noovle-Tim, indica un fenomeno analogo anche sul fronte della digitalizzazione (A. Gherardini e F. Ramella, Digitalizzazione e PMI). Tra il 2018 e il 2020 le aziende italiane hanno compiuto un «grande balzo» in avanti nell’adozione dei servizi di cloud computing, con un’accelerazione ben più pronunciata di quella presente in Germania, Francia e Spagna, che ci proietta sulla scia dei Paesi più digitalizzati d’Europa (Norvegia, Danimarca, Svezia e Finlandia).
Tutti questi progressi possono essere riassunti mediante la classifica dell’European Innovation Scoreboard, che ha la finalità di valutare in maniera comparata la qualità dei sistemi di innovazione degli stati membri. Come è noto, l’Italia non compare né nel gruppo di testa degli Innovation leaders, né in quello successivo degli Strong innovators. Si colloca, invece, nel gruppo dei Moderate innovators, ossia tra i Paesi che hanno prestazioni inferiori alla media europea. Negli ultimi anni, tuttavia, la nostra collocazione è sensibilmente migliorata. Nel 2008, l’Italia era il fanalino di coda anche tra i Moderate innovators, collocandosi (escludendo la Gran Bretagna) al 18° posto nella graduatoria, ben 26 punti sotto la media europea. Oggi, invece, ha raggiunto la posizione di testa in questo drappello di inseguitori, posizionandosi al 12° posto, a un soffio dalla media europea e dall’entrare nel gruppo degli Strong innovators.
Non c’è dubbio quindi che la grande recessione abbia avviato uno sforzo di correzione delle nostre strategie di sviluppo. Un tentativo non interamente pianificato e forse neppure del tutto intenzionale, ma che si avvale delle scelte fatte dalle imprese e degli stimoli introdotti da alcune politiche ben pensate. Come è noto, le crisi rappresentano degli straordinari learning triggers: delle opportunità per innescare processi di apprendimento. È per questo che i dati fin qui illustrati inducono a ritenere la fase attuale come una giuntura critica per l’Italia, nell’ambito della quale i fattori strutturali e quelli di agenzia possono ricombinarsi in maniera più virtuosa che in passato, producendo un cambiamento inaspettato.
È stato avviato uno sforzo di correzione delle nostre strategie di sviluppo, non interamente pianificato e forse neppure del tutto intenzionale, ma che si avvale delle scelte fatte dalle imprese e degli stimoli introdotti da alcune politiche
Sul versante dei fattori strutturali occorre rammentare che, ancora oggi, il nostro Paese possiede la seconda manifattura europea e che questo vice-primato è presente anche nei settori ad alta e medio-alta tecnologia. Nella sua struttura economica, quindi, esiste potenzialmente una growth-coalition interessata a una modernizzazione del Paese, che consenta di puntare su una via alta allo sviluppo. Sul versante dei fattori di agenzia, poi, vanno menzionati altri elementi favorevoli. In primo luogo, le buone performance dello Stato italiano durante la pandemia, che hanno consentito di riaccumulare un po’ di fiducia istituzionale e di indebolire la presa dei messaggi populisti nella maggioranza della popolazione. In secondo luogo, l’avvento di un governo di coalizione nazionale che (almeno temporaneamente) ha stabilizzato il quadro politico, contribuendo a depoliticizzare (almeno parzialmente) le politiche di contenimento del virus. In terzo luogo, il «fattore D» (Draghi) che ha rafforzato enormemente la credibilità del governo italiano sia verso l’esterno sia verso l’interno. In quarto e ultimo luogo, va menzionato il ravvedimento operoso dell’Unione europea che ha dato una risposta alla crisi pandemica ben diversa rispetto a quella fornita durante la grande recessione. I fondi che verranno mobilitati grazie al Next Generation Eu, rafforzano perciò l’idea che l’Italia abbia di fronte a sé un’occasione storica per raddrizzare, per quanto possibile, il legno storto del nostro modello di sviluppo, rendendolo anche più inclusivo.
Ci sono tutta una serie di rischi e di cautele che inducono a raffreddare ogni facile ottimismo. Perché dovremo affrontare non pochi wicked problems: problemi così radicati, complessi e difficili da trattare da apparire francamente insolubili. Non è scritto perciò da nessuna parte che sapremo sfruttare questa «grande occasione». E tuttavia, oggi, questa occasione esiste.
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