È da poco uscito nelle sale italiane The Room Next Door (La stanza accanto), il nuovo film di Pedro Almodóvar, reduce dal Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia. È il primo lungometraggio in lingua inglese del regista spagnolo e come tale potrebbe concorrere al premio Oscar, dopo le statuette vinte nel 2000 per Tutto su mia madre quale miglior film straniero e nel 2003 per la sceneggiatura di Parla con lei.

Tratto da un romanzo di Sigrid Nunez (Attraverso la vita, trad. it. Paola Bertante, Garzanti), La stanza accanto è incardinato sulla coppia di amiche Ingrid e Martha, interpretate da Julianne Moore e Tilda Swinton, affiancate nel cast da John Turturro e Alessandro Nivola. Le due donne, legate fin dalla giovinezza insieme nella redazione di una rivista, sono rispettivamente una scrittrice di successo e una reporter di guerra che si ritrovano nel momento della malattia terminale di Martha.

Stavolta la qualità stilistica del cosiddetto “Almodrama”, il neologismo/ispanismo che allude alla miscela tragicomica del cinema di Pedro, vira dunque verso il melò a tinte cupe, ancorché di luminosa energia. Il tema è infatti il suicidio assistito, ma anche la forza sovversiva della complicità femminile, con il suggello della celebre pagina finale di I morti, il racconto che chiude Gente di Dublino di James Joyce: “La neve cadeva, cadeva lieve in tutto l’universo… E lieve cadeva su tutti i vivi e sui morti”. Una citazione pure di John Huston che richiamò quel dolente epilogo in The Dead, il suo film testamentario del 1987.

Nel merito di quanto accade “nella stanza accanto” dell’avveniristico residence nascosto in un bosco nordamericano, là dove una porta chiusa basterà ad annunciare la fine della vita, il film è stato accolto con qualche riserva da parte della cultura cattolica italiana. Mentre in Spagna il critico cinematografico Carlos Boyero ha rilanciato una critica ricorrente rivolta all’autore, che sarebbe passato dalla matrice underground degli esordi all’anelito spirituale di Ingmar Bergman o di Carl Theodor Dreyer (“El Pais”, 18.10.2024). Del resto, già Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati, 2009) è suo malgrado un titolo metaforico della delusione di alcuni aficionados della prima ora, che non gli perdonano di aver abdicato alla proverbiale pirotecnia di costumi, travestimenti, provocazioni, trasgressioni e bizzarrie alla maniera di Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio. In effetti Almodóvar ha via via stemperato gli aspetti più “epidermici” del suo cinema, che quasi cinquant’anni orsono lo imposero quale vessillifero della movida madrileña insieme al coetaneo Joaquín Sabina, il cantautore di Pongamos que hablo de Madrid, e a Carmen Maura, che all’epoca animava il popolare programma televisivo Esta noche. Una parola, “movida”, presto adottata in molte lingue del mondo, ma che storicamente designa la stagione libertaria esplosa poco dopo l’interminabile dittatura franchista (1939-1975), all’insegna della voglia di vivere della capitale, le cui tappe/scenografie almodovariane sono scandagliate nella bella guida illustrata Todo sobre mi Madrid di Pedro Sánchez Castrejón (Ediciones La Librería, 2024).

Alla Puerta del Sol il diciassettenne Pedro era giunto alla metà degli anni Sessanta, senza un soldo in tasca, dalla natia Calzada de Calatrava, nel cuore della Castilla-La Mancha. Tra una prova giornalistica e una band punk-rock, tra un allestimento teatrale della compagnia Los Goliardos e un film in Super-8, Almodóvar per una dozzina di anni si manterrà lavorando nella compagnia dei telefoni: un'isola del tesoro di aneddoti ed esperienze, confluiti nella vena aurea delle narrazioni che gli hanno fruttato un'infinità di riconoscimenti fra cui il prestigioso Premio per le Arti Principe delle Asturie.

Nel merito di quanto accade “nella stanza accanto” dell’avveniristico residence nascosto in un bosco nordamericano, là dove una porta chiusa basterà ad annunciare la fine della vita, il film è stato accolto con qualche riserva da parte della cultura cattolica italiana

Tuttavia, Almodóvar non ha mai rinunciato a inoltrarsi nel Laberinto de pasiones che battezza una delle sue prime pellicole (1982), intraprendendo nel dedalo passionale un percorso a zig-zag fra la commedia grottesca e il melodramma, dal quale riesce a estrarre la quintessenza sentimentale a costo di fare a meno del pathos e dell’enfasi propri del genere. Perciò i film dell’ultimo quarto di secolo – da Carne trémula a Todo sobre mi madre, da Hable con ella a La mala educación, da Volver a Julieta – possono ben spiazzare o disorientare in virtù delle torsioni intorno al discorso amoroso e all’idea stessa di Cinema. Non di rado Almodóvar si autocita nella filigrana del testo filmico (Mujeres al borde de un ataque de nervios resta l’emblema di un memorabile cambio di stagione), ma a venire in luce sono talora richiami tanto “insospettabili” quanto espliciti. Se Julieta è ispirato all’inquietudine esistenziale dei racconti della scrittrice canadese Alice Munro, Gli abbracci spezzati rende omaggio al Rossellini di Viaggio in Italia, del quale è riproposta la scena di Ingrid Bergman in visita alle rovine di Pompei, e ad Antonioni di Blow-Up; e La voce umana celebra ancora a Rossellini che nel dopoguerra portò sullo schermo la pièce di Jean Cocteau affidandola ad Anna Magnani.

Neorealismo e oltre, verso la concretezza dell’invisibile e la ricomposizione del senso perduto delle cose: una struggente immersione nel passato pur di elaborare il dolore. Così, in Madres paralelas (2021), uno scambio di neonati in culla s’intreccia con la ricerca dei resti delle vittime di una strage avvenuta durante la guerra civile spagnola e quelle spoglie, infine rintracciate grazie all’ostinazione della protagonista Penélope Cruz, parlano al presente e rinviano alle fosse comuni dei nostri giorni.    

“L’amore non basta a salvare chi ami”, confessa Antonio Banderas che interpreta il personaggio di Salvador Mallo, alter ego dell’autore in Dolor y gloria (2019), forse il film più personale del nostro, che lo scorso 25 settembre ha compiuto settantacinque anni. Menzionare l’età conta, visto che Dolor y gloria e tanto più La stanza accanto sono opere sulla vecchiaia incipiente e l’assedio della malattia, ma soprattutto sui ricordi e l’infanzia, gli amori perduti e l’arte – il cinema, il teatro, la scrittura – che cura senza guarire, semplicemente perché non si guarisce dalla “bellezza e finitezza dell’essere al mondo” (Freud dixit). O sull’eros quale antidoto contro il terrore che si prova nelle guerre: è una confidenza di Martha all’amica, che a noi ha ricordato un passaggio dell’ex partigiano Giorgio Bocca sulla vitalità amorosa durante la Resistenza.

Il punto è superare la paralisi, la depressione, le fobie e le dipendenze, e continuare a creare. In tal senso Dolor y gloria guarda a 8 ½ di Federico Fellini, il cui poster accoglie il visitatore nello studio madrileno di Almodóvar, sede della casa di produzione “El Deseo”, fondata dal regista con il fratello minore Agustín. D’altronde, se c’è un Paese europeo nel quale il cinema di Fellini avrebbe potuto sentirsi “a casa”, è proprio la Spagna. Per le comuni radici cattoliche e latine (Seneca e Marziale erano iberici) e per la deformazione farsesca o assurda della realtà – l’esperpento caro al drammaturgo Ramón Maria del Valle-Inclàn – che spesso, a torto o a ragione, viene assunta quale cifra tipicamente felliniana e in seguito almodovariana.

Dolor y gloria e tanto più La stanza accanto sono opere sulla vecchiaia incipiente e l’assedio della malattia, ma soprattutto sui ricordi e l’infanzia, gli amori perduti e l’arte Nell’accettare il Leone d’oro alla carriera attribuitogli nel 2019 dalla Biennale di Venezia, Pedro Almodóvar evocò i suoi “bellissimi ricordi” in Laguna: dal debutto internazionale alla Mostra 1983 con L’indiscreto fascino del peccato (Entre tinieblas) a Donne sull’orlo di una crisi di nervi nel 1988. “Questo Leone – dichiarò – diventerà la mia mascotte, insieme ai due gatti con cui vivo”. Il Leone che fa le fusa, un’immagine di rara tenerezza e un potente capovolgimento del senso comune: il futuro è fedele al passato, è libertà. Ma aggiungeremmo un piccolo cane, el perro de Goya, dipinto a olio da Francisco Goya sul muro di casa intorno al 1820 e poi trasportato su tela (è tra le sue “pitture nere” esposte al Museo del Prado). Enigma inquietante e insolubile… Il cane sta affondando nella rena giallastra o sta lottando per fuoriuscirne? È prossimo ormai alla fine o cerca disperatamente un varco verso la vita? Non ci sono risposte, neppure nella stanza accanto.