A quasi due mesi da quando le associazioni degli agricoltori hanno iniziato ad agitare lo spettro degli “scaffali vuoti” per carenza di manodopera stagionale nelle raccolte, il governo italiano sembra deciso a metterci una pezza con una sanatoria ad hoc. In questo lasso di tempo, il dibattito sul tema è stato fitto e acceso. Da ogni parte (esponenti politici, sindacali e del mondo agricolo in primis) sono rimbalzate cifre allarmanti: 370.000 operai in meno nel comparto, e cioè, statistiche alla mano, l’intera compagine dei lavoratori stranieri in agricoltura. Del totale, stando ai dati elaborati da Romano Magrini, responsabile per le relazioni sindacali, il lavoro, l’immigrazione e la sicurezza di Coldiretti, e autore da diversi anni della sezione dedicata ai lavoratori agricoli del Dossier Statistico Immigrazione curato dalla fondazione Idos, sulla base degli elenchi anagrafici Inps, circa 130.000 sarebbero cittadini comunitari (100.000 rumeni e altri 30.000 tra polacchi, bulgari e slovacchi).
Nelle stime più recenti sulla carenza di “braccia”, sembra che almeno i più conservatori, in termini numerici, si mantengano su un più cauto 200.000 – comunque un numero altissimo
Nelle stime più recenti sulla carenza di “braccia”, sembra che almeno i più conservatori, in termini numerici, si mantengano su un più cauto 200.000 – comunque un numero altissimo, anche considerando che le quote di lavoratori stagionali emesse ogni anno, fino al 2019, con decreto governativo per il reclutamento di cittadini di Paesi extra Ue vanno regolarmente deserte, o quasi: si parla di meno di 3.500 persone ingaggiate annualmente per il lavoro agricolo con questo sistema, a fronte di una disponibilità di circa 18.000 ingressi. Peraltro, i permessi per lavoro stagionale in scadenza (così come tutti i permessi di soggiorno) sono stati prorogati per decreto, e lo saranno probabilmente fino alla fine dell’anno. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini di altri Paesi che lavora in Italia lo fa in maniera relativamente stabile, per quanto si possa utilizzare questo aggettivo per definire il lavoro in un comparto strutturalmente tra i più precarizzati. Quali sono, dunque, le ragioni di un’emorragia così copiosa?
Senz’altro, il fatto che le misure di contenimento della pandemia siano coincise con il periodo di ripresa dei lavori agricoli dopo la pausa invernale ha giocato un ruolo importante nell’acuire il problema per le aziende. Gli operai agricoli stranieri più facilitati al rientro nei loro Paesi di origine (e cioè, oltre ai cittadini comunitari, coloro i quali sono originari di Paesi non distanti dall’Italia, e ovviamente in possesso di un regolare permesso di soggiorno) probabilmente sono rimasti in numero significativo in Marocco, Tunisia, Albania, Macedonia. Lo stesso può esser vero per quei pochi originari del Sud dell’Asia o dell’Africa occidentale che avevano fatto ritorno a casa per qualche mese.
Bisogna però tenere conto anche di un’altra serie di dati, che messi in fila raccontano una storia diversa da quella che ci viene normalmente propinata, e che guarda soltanto ai “colli di bottiglia” creati dallo stato d’emergenza. In primo luogo, le cronache (non solo quelle italiane) degli inizi di marzo, di quando cioè Paesi come la Romania e la Bulgaria hanno adottato severe misure restrittive degli ingressi di chi rientrava dall’estero, parlavano di un esodo di massa – in particolare dall’Italia (primo Paese per numero di emigrati rumeni, che sono più di 1,2 milioni), e soprattutto dalle regioni del Nord, verso la Romania.
In sostanza, sembrerebbe che a molti lavoratori e lavoratrici non andasse giù l’idea di dover rischiare la vita per un lavoro che nella maggior parte dei casi è severamente sfruttato. D’altra parte, queste vicende confermano una tendenza che, nel caso dei distretti agricoli italiani, era già in atto almeno dal 2017: da allora il numero di lavoratori e lavoratrici comunitari in agricoltura è in costante diminuzione (anticipata dai polacchi, i primi a disertare l’Italia già in anni precedenti). Complici di questo processo sono sicuramente la crescita economica nella terra d’origine, da un lato, e le condizioni non certo idilliache in cui molti erano costretti a lavorare nelle campagne italiane, dall’altro. In effetti, pur sempre con quote poco significative rispetto al totale, il numero di operai agricoli extracomunitari a cui nel 2019 è stato accordato un permesso stagionale è in aumento rispetto agli anni precedenti, si direbbe a compensare in parte la perdita di braccianti comunitari.
A conferma di ciò va anche il buco nell’acqua della diplomazia italiana e delle associazioni degli agricoltori, il cui tentativo di stabilire i famosi “corridoi verdi” per la manodopera stagionale, proposti a livello europeo, sembra essere caduto nel vuoto, a differenza di quanto è successo con la Germania (o la Gran Bretagna), dove diversi voli charter partiti da Romania e Bulgaria sono atterrati negli scorsi giorni carichi di lavoratori per la raccolta di asparagi e altri ortaggi. Certo anche nell’Europa del Nord, nonostante i proclami, le condizioni di lavoro si stanno rivelando diverse dalle promesse – è del 23 aprile il reportage del quotidiano rumeno “Adevarul”, in cui diversi lavoratori reclutati per la campagna dell’asparago in Germania denunciano gravi abusi. Ma sembra essere meglio dell’Italia, in ogni caso, e per molte ragioni che potrebbero avere a che fare anche con le differenze nei sistemi sanitari e nell’ampiezza del contagio.
Il rifiuto di certe condizioni di vita e di lavoro fa eco a un’altra considerazione, riguardo alla proposta di sanatoria per chi, cittadino extracomunitario irregolare già lavora nella “fabbrica verde” senza alcun tipo di tutela, nemmeno sulla carta
La dimensione soggettiva, di rifiuto di certe condizioni di vita e di lavoro, fa eco a un’altra considerazione, riguardo alla proposta di sanatoria per chi, cittadino extracomunitario irregolare (spesso e volentieri dell’Africa occidentale, o del subcontinente indiano), già lavora nella “fabbrica verde” senza alcun tipo di tutela, nemmeno sulla carta. Non va dimenticato (ma lo fanno quasi tutti) che la proposta di una sanatoria non nasce con la pandemia. Aldilà del ricorso ciclico a questa forma estemporanea di regolarizzazione nella storia delle politiche migratorie italiane (la prima di 7 sanatorie risale al 1986), dal 2012 in poi si è inaugurato un lungo periodo di vuoto normativo in cui per chi era irregolare in Italia non esistevano canali di regolarizzazione se non quello, perlopiù fallimentare, della protezione internazionale. D’altra parte, il parallelo ingrossarsi dei ghetti, bacini di reclutamento di manodopera agricola di cui spesso si parla, è andato di pari passo con forme di protesta e auto-organizzazione che negli anni hanno rivendicato documenti, case, trasporti e contratti – dove ovviamente la regolarità giuridica è condizione necessaria per il riconoscimento di altre forme di tutela.
L’ultimo, eclatante, episodio in ordine di tempo è stato il blocco, in contemporanea, del porto di Gioia Tauro e della zona industriale di Foggia da parte di centinaia di braccianti africani, sostenuti da qualche solidale. La richiesta era di un’interlocuzione con il ministero dell’Interno per una regolarizzazione. A pochi giorni da quel 6 dicembre 2019, Luciana Lamorgese confermava, in diverse sedi (tra cui il Parlamento) la volontà di procedere a una sanatoria, tanto da scatenare tra gli stranieri presenti in Italia il diffondersi incontrollato di voci, infondate, riguardo una presunta regolarizzazione già in atto. Se considerare la sanatoria in arrivo – senz’altro insufficiente a garantire l’intera platea di irregolari, e in ogni caso per nulla risolutiva rispetto alla gestione delle politiche migratorie – unicamente come effetto delle rivendicazioni di chi vive nei ghetti e lavora nelle campagne italiane sarebbe illudersi, non si può d’altra parte ignorare il ruolo che sicuramente queste battaglie vi hanno giocato.
Infine, per tornare ai numeri e ai conti che non tornano, sicuramente le stime attuali, così come le proposte per far fronte alla carenza di manodopera, dimostrano, casomai ce ne fosse bisogno, quanto in Italia il comparto agricolo si regga su una vasta proporzione di lavoro irregolare. Solo così, oltre che con quanto esposto in precedenza, si spiega il numero tanto alto di operai e operaie “mancanti” rispetto ai dati ufficiali. D’altra parte, questo cinico terno al lotto evidenzia una volta di più quanto non esistano forme di pianificazione e organizzazione strutturale del comparto nel suo complesso. Una regolarizzazione ad hoc non cambierà certo questo stato di cose, ma potrebbero farlo, e in parte lo stanno già facendo, le istanze delle dirette e dei diretti interessati.
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