Con tardiva consapevolezza, alla Rai hanno deciso di dare una virata ai loro talk show. D’ora in avanti dovranno attenersi a un preciso regolamento: invitare persone competenti e autorevoli, possibilmente non pagarle, alternare gli ospiti in modo da scoraggiare un parterre in cui ognuno gioca la sua parte, esaltando contraddittori che ci si immagina funzionali agli ascolti. E solo alla fine garantire la veridicità delle informazioni.

La pandemia prima e la guerra poi hanno accentuato una tendenza già ben presente, beninteso non soltanto nell’informazione italiana: il manicheismo. Privilegiare il pensiero netto. In principio fu Biscardi, che trasferì – come scrissero in molti – il Bar Sport in Tv. Lo stesso giornalista che si difese in Tribunale da un’accusa di diffamazione - per quanto detto nel suo programma – sostenendo che al suo Processo del lunedì si faceva spettacolo, mica informazione. Non c’era dunque da stupirsi del tifoso della Juve contro quello dell’Inter, del milanista contro il romanista. E poco importava se, spesso, personaggi del genere si fregiassero della qualifica di giornalisti professionisti, con tanto di tessera dell’Ordine professionale. Poi, tutto sommato, si trattava soltanto di calcio. Di un gioco in cui la divisione in tifoserie è contemplata da sempre. Anzi, è doverosa.

Poco alla volta, dal calcio ci siamo spostati su altre materie ben più delicate, fino a dividerci fra vaccinisti e anti-vaccinisti, prima, e tra atlantisti e putiniani, ora. Insomma, Biscardi ha fatto proseliti e ora appare chiaro in ogni programma si va alla caccia come prima cosa di “tutto quanto fa spettacolo”. Tanto per fare soltanto un esempio: chi lo avrebbe mai detto che sulla terza rete televisiva si sarebbe passati dal Biscardi del processo calcistico ai duetti fra Mauro Corona e Bianca Berlinguer, che di quella logica sono la ovvia conseguenza?

È quello che vuole il pubblico, si dice. Anche se gli ascolti non sembrano confermarlo più di tanto. Ma perché siamo arrivati fin qui? E sono possibili alternative?

È quello che vuole il pubblico, si dice. Anche se gli ascolti non sembrano confermarlo più di tanto. Sembra dunque opportuno porsi due domande. Perché siamo arrivati fin qui?Sono possibili alternative?

Fare del talk uno show risponde a una serie di logiche semplificatrici che sembrano dover necessariamente accompagnare l’informazione televisiva e, negli ultimi anni, quella ancora più rapida dei media digitali. Logiche che, però, hanno finito per coinvolgere anche media tradizionalmente più riflessivi come la carta stampata. Tali logiche semplificatrici rispondono a due esigenze convergenti. Innanzitutto, favorire la popolarizzazione dell’informazione e, quindi, il potenziale allargamento della platea di riferimento. In secondo luogo, fare chiarezza rapidamente in quella matassa sempre più intricata di notizie che ormai ci raggiungono da tutte le parti e che sono a nostra disposizione 24 ore su 24 e attraverso una sempre maggiore quantità di canali. Una matassa via via definitiva in vario modo: sovraccarico informativo, disordine informativo, infodemia.

Ma partiamo dal primo punto. In Italia, a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, è nato, tardivamente, il mercato dei media, e quindi anche dei newsmedia, grazie soprattutto alla concorrenza radio-televisiva, conseguente alla liberalizzazione dell’etere, e all’affermazione della stampa locale, resa possibile dalle sinergie editoriali favorite dall’ingresso dei computer in redazione. L’autonomia economica – così come in precedenza era accaduto altrove - ha richiesto una diversificazione dei contenuti, in grado di rispondere alle esigenze di un pubblico di massa. Anche l’informazione giornalistica ha dovuto seguire tale strada; per quanto si possa faticare a considerare l’informazione un mero prodotto di mercato.

Si sono aperte le strade della popolarizzazione, oppure – se si preferisce il termine spesso adoperato – della spettacolarizzazione, che hanno rafforzato alcune peculiarità della logica mediatica: la personalizzazione, l’adozione di un linguaggio elementare e sempre più spesso supportato dalle immagini, il ricorso a musiche di sottofondo accattivanti, la decontestualizzazione dei fatti, che induce a soffermarsi sulla storia breve piuttosto che sulla storia lunga che ogni fatto ineludibilmente contiene in sé.

Per consolidare la serietà della trattazione, nonché per confermare l’esigenza di un’esposizione plurale dei fatti, non appiattita esclusivamente – come per troppo tempo era stato – sulla volontà della classe politica, si è introdotto uno sguardo disincantato, che spesso, però, è sfociato in scetticismo e diffidenza. Beninteso, era già successo altrove. Si pensi alla critica rivolta esattamente trent'anni fa da Thomas Patterson al giornalismo americano, che aveva iniziato a prendere una postura lamentosa attraverso la denuncia del “non funziona”. Out of order (del 1992) è, infatti, il titolo del libro dello studioso americano. Oppure all’analoga denuncia di David Altheide sulla tendenza dei media - e segnatamente dei newsmedia - di creare paura: Creating fear (2002).

La logica della contrapposizione si è espansa a tutti gli argomenti, perché risponde benissimo alla semplificazione e alla spettacolarizzazione: posizioni nette, ben distinte, senza spazio per i distinguo

Insomma, la cronaca ha iniziato a diventare la regina anche in un giornalismo – quello italiano – tradizionalmente orientato al commento. Basterebbe prendere una cartina geografica e segnare le tante località assurte all’onore della cronaca grazie a delitti più o meno efferati, che non erano certo una peculiarità del periodo, visto che le statistiche parlavano di una continua diminuzione dei delitti, ma rispondevano perfettamente alla descritta logica della popolarizzazione. Del resto la cronaca giudiziaria ben si presta alle logiche descritte, sia per la sua programmabilità, funzionale alle esigenze organizzative del giornalismo, sia perché rende di plastica evidenza la contrapposizione, che i newsmedia hanno iniziato ad adoperare: di qua o di là, bianco o nero. Nel caso della giudiziaria: vittima contro carnefice, bene contro male. Logica della contrapposizione che si è espansa a tutti gli argomenti trattati, perché risponde benissimo alla richiamata semplificazione: posizioni nette, ben distinte, in cui ogni interlocutore esprime chiaramente e in pochi secondi come la pensa.

Ma, come anticipato, c’è una seconda causa esplicativa per la voglia di semplificazione: l’esplosione dei fatti. Come sanno bene i giornalisti, sono ormai molti anni che il numero di informazioni da gestire deve essere contenuto. Altro che battere i marciapiedi – fisici o reali – per andarle a cercare. Ma se per tanto tempo la gestione di questa ricchezza è rimasto un problema dei professionisti dell’informazione, ora appartiene a tutti noi, perché nell’ambiente digitale siamo esposti a continue informazioni, che ci giungono attraverso i tanti dispositivi gestiti da ognuno di noi.

Si staglia davanti ai nostri occhi l’apparente banalità dei fatti. Banali proprio per la loro facilità di distribuzione e ricezione e per la conseguente molteplicità: l’overdose informativa di cui abbiamo parlato. Apparente perché, diversamente da quanto sostiene una vecchia retorica giornalistica, i fatti non parlano affatto da soli, ma vanno sempre interpretati, contestualizzati.

Dunque, il fatto nella sua banale immediatezza richiede subito una chiosa. C’è la guerra in Ucraina: chiaro ed evidente, ma allora voglio conoscere i motivi e, soprattutto, avere chi mi spiega le ragioni e i torti. Analogamente, arrivano i vaccini per combattere il Covid: sono subissato da pareri discordanti e inizio a diffidare.

Questo enorme bisogno di senso per orientarsi nell’orgia informativa si scontra, però, con il poco tempo che abbiamo per farci un’idea. Pertanto, prediligiamo le spiegazioni semplici, nette. Più sono i fatti, gli argomenti, i fenomeni sociali da conoscere e meno tempo abbiamo per ciascuno di essi.

Quindi, la semplificazione non risponde soltanto a una logica organizzativa dei media – dare significatività in poco tempo – ma anche a un’esigenza di noi fruitori: dimmi come stanno le cose, che poi devo passare alla prossima!

Ovviamente, il sistema dei newsmedia si è rapidamente adattato a queste esigenze convergenti. E poiché interpretazioni e contestualizzazioni richiedono tempo, si è presa la scorciatoia della valutazione: per l’appunto, il giudizio tranchant, il pensiero netto. La conferma è nelle caratteristiche delle testate giornalistiche affermatesi negli ultimi anni: “Il Fatto quotidiano”, “Libero”, “La Verità”, ad esempio, tutti giornali che esprimono posizioni nette. Non hanno indugi: ti dicono come la devi pensare. Una tendenza questa, peraltro, non soltanto italiana.

Ciò detto, sembrerebbe impossibile ipotizzare alternative. Del resto, sapere un poco di tutto appare funzionale alle esigenze dei produttori quanto dei consumatori di informazioni. Nonché coerente con la definizione di cittadino monitorante adoperata da uno dei più brillanti studiosi di giornalismo – Michael Schudson – per spiegare le nuove forme dell’opinione pubblica.

Eppure, le cose non stanno proprio così. Se davvero ci si trovasse davanti a una consapevole e condivisa convergenza d’interessi non saremmo da anni - più o meno in tutto il mondo - davanti alla crisi del giornalismo. Crisi che deriva da una caduta di fiducia per questi intermediari.

Sono i fruitori a chiedere semplificazione, ma poi non si fidano delle risposte semplificate. E diffida ancora di più di chi, non volendosi sottoporre al gioco della semplificazione, sottolinea che le cose sono più complesse. Li si taccia di saccenteria, di proteggere gli interessi dei “poteri forti” a non farci sapere come stanno davvero le cose. Da queste considerazioni nasce la reazione di taluni a schierarsi con le minoranze più chiassose, che gridano al complotto e radicano ancor più la nostra diffidenza.

Insomma, l’esigenza d’invertire la china, come sembrerebbero voler fare i dirigenti Rai, non risponde a una visione normativa: voler imporre un altro modo di raccontare la realtà, quanto piuttosto a un problema d’efficacia: come far recuperare all’informazione giornalistica la credibilità necessaria.

Occorre un nuovo patto informativo, in cui i giornalisti virino dalla valutazione all’interpretazione e il pubblico comprenda che informarsi nell’abbondanza è inevitabilmente più faticoso, ma può assicurare non pochi vantaggi. Non mancano esempi: si stanno moltiplicando i formati lunghi, dove si presentano scenari e si disegnano prospettive; si inizia a parlare di giornalismo costruttivo e immersivo, che non si ferma a dire “non funziona”, ma a spiegarci anche perché e a indicare alternative.

Come sempre, però, l’ultima parola spetta ai cittadini-fruitori, che devono armarsi di pazienza, nonché comprendere che – come tutto – anche l’informazione ha un costo. A titolo totalmente gratuito si può restare soltanto sulla superficie delle cose. Oppure accontentarsi di assistere ai battibecchi nei pollai.