Il muro di Theresa. I reticolati già esistenti non bastano più. E così per contenere il flusso ininterrotto dei migranti che da Calais tentano di raggiungere il Regno Unito, il governo britannico ha annunciato che inizierà «al più presto» e non oltre la fine del mese la costruzione di un muro lungo l’autostrada che costeggia il campo profughi a Calais, ultimo lembo di terra continentale prima di mettersi in viaggio verso l’isola, spesso legati sotto a un camion. La somma stanziata dal governo di Londra è di circa 2 milioni di sterline, la barriera in cemento dovrebbe essere lunga un chilometro e alta quattro metri. Sono almeno 5.000 le persone provenienti dall’Africa, dall’Asia, dal Medioriente e dal Golfo che affollano la zona definita «la giungla» e che ogni notte provano ad attraversare la Manica con la speranza di lasciarsi alle spalle guerre, fame, carestie. Pochissimi riescono a eludere i controlli, le organizzazioni umanitarie di Calais affermano che la percentuale dei morti è di circa il 90% di quelli che tentano l’impresa con la complicità di autisti di tir pronti a rischiare il carcere dopo aver incassato sino a 12.000 euro per nascondere chi vuole un futuro inglese.

Le bianche scogliere di Dover sono sull’altra sponda a meno di ventuno miglia, si vedono all’orizzonte nei giorni limpidi. Ma il confine è nel cuore del porto di Calais, al terminal 8, dove la scritta «Uk Border» compare ovunque nello spazio riservato ai passeggeri dei traghetti che ogni giorno collegano le due sponde. «È come se la frontiera della Grecia fosse in Puglia», ha dichiarato lo scorso luglio il responsabile della Ong Passeurs d’hospitalité che si batte per cambiare le regole e definisce il campo «la più grande baraccopoli a cielo aperto dell’intero continente». Le norme oggi applicate risalgono al 2003, quando i governi di Londra e Parigi firmarono un trattato che prevedeva controlli di agenti britannici in territorio francese per frenare gli ingressi attraverso il tunnel scavato sotto la Manica. Sarkozy, all’epoca all’Eliseo, cedeva la sovranità su una piccola porzione del porto di Calais e in cambio Blair accettava di farsi carico di poche centinaia di curdi iracheni in attesa di raggiungere il Regno Unito per ottenere asilo politico.

Si tratta di un numero cresciuto in seguito in maniera esponenziale. Lo spazio della «giungla», in parte gestito dai volontari della Croce Rossa, è stato fatto sgomberare più volte dalla polizia, ma nessuno sa dire con esattezza quante persone siano ammassate in pochi chilometri quadrati, con pochissime possibilità di attraversare il mare. L’ultima «giungla» è stata sgomberata tre mesi fa e da allora è di nuovo sorta in pochi giorni in mezzo a reticolati e telecamere. A marzo il premier inglese David Cameron ha promesso 17 milioni di sterline per aumentare i controlli: che sono stati intensificati senza grandi risultati perché ogni notte i disperati tentano l’impresa. Da luglio a oggi la polizia ha intercettato 6.000 persone che, con la complicità degli autisti, provavano a varcare il confine. I respingimenti sono inefficaci: chi viene fermato appena messo in liberta tenta di nuovo e il numero di chi si accampa nella «giungla» cresce.

A Downing Street, ora, hanno deciso di erigere un muro, anche se difficilmente la barriera in cemento si rivelerà efficace. Intanto i contrasti tra le autorità francesi e britanniche aumentano. «Gli inglesi hanno deciso con un referendum di uscire dalla Ue, adesso devono riprendersi il controllo dei loro confini non da noi ma sul loro territorio», ha detto pochi giorni fa il presidente della società portuale di Calais. Impossibile che questo avvenga perché tutto si fonda su trattati bilaterali che non possono entrare nel negoziato per abbandonare l’Unione europea. L’esecutivo a guida May, inoltre, non accetterebbe mai di ridiscutere l’accordo del 2003 e di predisporre campi profughi a Dover, dove il 70% degli abitanti ha votato per il «Leave» e teme l’invasione dal sud del continente. Meglio, dunque, investire risorse sulla costruzione di un muro. Ben sapendo che la barriera di cemento armato muterà ben poco, che i disperati alla ricerca di un futuro diverso da un passato di morte e di miseria non si lasceranno scoraggiare dalla nuova barriera aggiunta a quelle già esistenti.

Il problema, in tutta evidenza, è dunque politico. Al cuore c’è l’assenza di un disegno comune della Ue in materia di accoglienza e di gestione condivisa delle frontiere. Il muro che sarà eretto a Calais è l’ultimo nell’elenco di quelli costruiti negli ultimi anni dai governi, sull’onda del populismo crescente ovunque, per arrestare il flusso dei migranti. La «giungla» continuerà a essere affollata, i passeurs a intascare migliaia di euro, il numero dei morti a crescere, il conflitto tra Regno Unito e Francia a inasprirsi, e Londra metterà a bilancio somme sempre più elevate per impedire l’attraversamento della Manica. Senza alcun tentativo da parte dei due governi di iniziare un indispensabile percorso condiviso in ambito comunitario per offrire soluzioni a un’emergenza che richiederebbe sforzi eccezionali e unità di intenti per tentare di venire almeno in parte risolto.

 

[Questo articolo è uscito originariamente su «Il Mattino» dell’8 settembre 2016]