Io fui nel giorno alto che vive / oltre gli abeti, / io camminai su campi e monti / di luce [Antonia Pozzi]
In Una giornata di Ivan Denisovič, Aleksandr Solženicy riproduce la dignità del lavoro, anche quando si tratta di erigere un muro perché vi si è costretti con la forza, nell’opera di un detenuto politico in un Gulag sovietico degli anni Cinquanta, condannato a dieci anni di campo. La forza di un’opera manuale, che costa fatica e costanza, è uno dei tratti solo apparentemente secondari che emergono dal romanzo che ha dato la fama a Paolo Cognetti, Le otto montagne, pubblicato per Einaudi nel 2016. Il libro è ora anche un film con lo stesso titolo, uscito nelle sale nella seconda metà di dicembre e diretto da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Un film riuscito, vincitore a Cannes del Premio della giuria.
Non era facile evitare la tentazione di tradurre la storia di Cognetti in un romanzone cinematografico: lo scenario dell’alta montagna valdostana avrebbe aiutato
Non era facile evitare la tentazione di tradurre la storia di Cognetti in un romanzone cinematografico: lo scenario dell’alta montagna valdostana avrebbe aiutato, e infatti gli autori scelgono il formato ridotto per allontanare il più possibile il rischio che l’attenzione scivoli su cartoline da Apt.
Il rapporto profondo tra due uomini che si sono conosciuti da ragazzini, Pietro (Luca Marinelli) che va in montagna in estate per vacanza ma è destinato a una ordinaria vita di città al termine di un tradizionale percorso di studi, Bruno (Alessandro Borghi) che in montagna vive seguendo l’alpeggio dello zio, è il filo che tiene unite le vicende che la sceneggiatura riproduce e valorizza. Non c’è tutto il libro. Il film, che supera ampiamente le due ore, segue fondamentalmente la trama ma, per fortuna, omette. Non c’è nulla a partire da questa trasposizione cinematografica che potrebbe, un domani, spezzettare l’opera per farne una serie, pur non mancando gli spunti per tirarla inutilmente in lungo. Sul grande schermo, Bruno è molto più vicino al ragazzo selvatico del primo, omonimo libro di Cognetti (Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna, edito per la prima volta da Terre di mezzo nel 2013 e successivamente rieditato) di quanto non sia nel romanzo. Bruno è la montagna, quella montagna lì, a ridosso dei giganti alpini che ci separano dalla Francia e dalla Svizzera, “di una bellezza cupa, aspra, che non infonde pace ma piuttosto forza. E un po’ d’angoscia”, riprendendo le parole di Cognetti. Ma è tutto fuorché il villico grezzo che spesso chi va in montagna per una o due settimane d’agosto si figura. Lo dimostra nel suo lavoro, che non è mai umiliante o di basso livello. Il suo operare fatto di forza fisica eppure minuzioso mostra ciò che non sappiamo quasi mai valorizzare, considerando lavoro povero – che è innanzitutto lavoro malpagato e sfruttamento – ciò che invece andrebbe valorizzato e riconosciuto. Il contrasto tra il lavoro “pulito” e di qualità, ben pagato, della metropoli – Pietro vive a Torino dove lavora il padre laureato – e la mansione di scarsa qualità della stalla o del manovale, aiuta a rimettere in ordine le nostre categorie. Era difficile, più nel racconto cinematografico che in quello scritto, non scivolare nella retorica, che viene evitata del tutto, aggiungendo con un certo evidente piacere da parte degli autori la macchietta del cittadino che va in montagna e immediatamente s’innamora della vita agreste, subito desideroso di “cambiar vita” per i valori veri.
C’è poi, certo, la montagna, la sua grandezza, la sua potenza. Il rispetto che le si deve, pena la vita. Un tema che in Cognetti è forte e che spicca molto nel libro, soprattutto, dove si ricostruisce la vicenda dell’uomo inesperto e frettoloso, che a causa di una slavina uccide un amico del padre di Pietro. O ancora si presentano agli occhi di Pietro, illustrati in dettaglio dalle parole di Bruno, i segni di un’alluvione. Questioni molto care a Cognetti, che a più riprese è tornato sul rapporto ormai compromesso tra l’uomo e il territorio, “un rapporto non rispettoso e non saggio, di solo sfruttamento e non di conoscenza”, come scrisse pochi giorni dopo la tragedia di Rigopiano nel gennaio 2017: “questi non sono eventi straordinari, sono eventi prevedibili e misurabili” (La memoria della montagna, “la Repubblica”, 21 gennaio 2017).
Un film mai ovvio che riesce ad essere a più riprese delicato, aiutato in questo dalla scelta di tempi spesso dilatati e da campi lunghi
Le otto montagne è un film che riesce ad essere a più riprese delicato, aiutato in questo dalla scelta di tempi spesso dilatati e da campi lunghi, ma al tempo stesso ruvido, capace di restituire temi come l’amicizia da non darsi mai per scontata, sempre difficile da tenere in equilibrio, da riagguantare anche dopo molti anni che la ci si è lasciata sfuggire, e la fragilità delle scelte di molti uomini che non si accontentano di vite preconfezionate ma non hanno ancora la forza di costruirsene una lungo una propria via. Almeno sino a quando lo smarrimento e la rabbia non lasciano il posto a scelte fondate sulle proprie convinzioni prima che sulle aspettative di chi ci circonda.
C’è chi ha formulato qualche critica all’accompagnamento musicale del film, chi alle cadenze dell’italiano non troppo piemontese: aspetti che non tolgono forza a un piccolo gioiello che non ha risentito né della notorietà del libro da cui è tratto né di quella dei due protagonisti e che merita senz’altro una visione molto partecipata.
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