Trecento pagine fitte, di cui venticinque di glossario, per illustrare una situazione assai seria. Non tanto e non solo per l’analisi dell’oggi, quanto (ancora una volta) per le prospettive. Il Rapporto annuale 2019 dell'Istat, intitolato La situazione del Paese e presentato a Montecitorio dal neo presidente Giancarlo Blangiardo, non lascia aperti molti varchi all’ottimismo. E – di certo involontariamente ma purtroppo inevitabilmente – rappresenta in forma non troppo plastica eppure a suo modo sempre affascinante lo stato dell’arte di un’Italia che arranca, a partire dai dati economici. Le difficoltà dell’economia italiana vengono riconosciute in apertura, pur sottolineando (anche troppo, forse) il perpetuare di situazioni di difficoltà a livello globale e negli altri Paesi europei: “Alla stregua di quanto accaduto ai principali partner europei, anche l’economia italiana ha segnato un netto rallentamento della crescita del Pil” [corsivo nostro].
Molte ombre, pochissime luci. Ombre su una dinamica dei consumi, che paga le condizioni di debolezza del potere di acquisto delle famiglie, che “hanno fornito un contributo alla crescita del Pil sostanzialmente dimezzato rispetto all’anno precedente)”. Famiglie la cui fiducia nella ripresa sembra essere calata sensibilmente, “con valutazioni pessimistiche diffuse a tutte le componenti (dei consumatori”, seppure con qualche timido segnale di ripresa nell’ultimo mese.
Ombre nel sistema delle imprese, che ha ricostituito “solo in parte la base produttiva persa durante la seconda recessione del periodo 2011-2013”. Con forti problemi di capitale fisico e umano.
Anche nel mercato del lavoro, del tutto insufficienti le poche luci a illuminare crescenti zone d’ombra. Nel Rapporto, la premessa del capitolo dedicato a “Mercato del lavoro e capitale umano” non basta a ridare speranza di una inversione di tendenza (“A cinque anni dall’avvio della ripresa economica il mercato del lavoro italiano mostra, nonostante il recente rallentamento ciclico, un sostanziale miglioramento superando i livelli occupazionali pre-crisi”). La crescita degli occupati, infatti, è un dato da disaggregare: per lo più negativo quanto a stabilità del lavoro e a prospettiva di crescita individuale. Infatti, il “deciso aumento dei lavoratori dipendenti e il calo di quelli indipendenti si sono accompagnati da una ricomposizione interna dei due aggregati che ha comunque accresciuto il peso dei componenti che rappresentano al loro interno segmenti relativamente più vulnerabili”. Crescita dei lavori a termine tra quelli dipendenti (soprattutto quelli di breve durata, con contratti di lavoro inferiori ai sei mesi; sul punto rimandiamo al numero 3/2018 del Mulino) e riduzione delle forme di lavoro a tempo pieno, con particolare riguardo per il lavoro femminile, che ha visto sì una dinamica positiva, ma accompagnata da “una riduzione della stabilità e delle ore lavorate”. Con l’aggravante, di cui si è discusso un poco nello specifico nei giorni scorsi, del vincolo famigliare sempre più forte per le donne lavoratrici, costrette spesso a scegliere tra un lavoro o un figlio (o, in casi ormai non così comuni, più di uno).
Restando sul mercato del lavoro, aumenta la sua segmentazione e prosegue il peggioramento delle condizioni in base all’età: negli ultimi dieci anni, fra i giovani la quota di dipendenti a tempo indeterminato “è scesa dal 61,4% al 52,7%”, mentre per il lavoratori con più di 35 anni di età “si attesta al 67,1%”. Fortissime, e crescenti, le disparità territoriali, con un Nord in buona parte uscito dalla crisi e in netta ripresa e un Sud che aumenta i divari anziché ricucirli: rispetto al 2008 al Centro Nord si è tornati a un +2,3% di occupati, a fronte di un -4% al Sud. Un punto, questo, su cui ha insistito anche il presidente della Camera Roberto Fico nella sua introduzione, ma che non sembra essere accompagnato da politiche di governo nazionale atte a invertire la tendenza. Anzi, come più volte è stato sottolineato sulle nostre pagine, intende operare in senso contrario, con il progetto di una Autonomia differenziata che, oggi più che mai, sembra non conoscere ostacoli. Il sottosegretario Giorgetti, che ha seguito la presentazione in prima fila, lo sa bene.
Altro punto sottolineato dal rapporto è la relazione tra qualità del posto di lavoro e remunerazione economica: anche qui si è tornato a parlare di migrazioni di giovani italiani con qualifiche medio-alte, sia verso l’estero (come noto ai nostri lettori, avendo dedicato al tema questa rivista un intero numero monografico) sia verso il Nord dalle regioni del Sud (anche qui rimandiamo a articoli usciti recentemente: quello di Michele Colucci e Roberto Impicciatore sulle migrazioni interne, oltre all’intervista fatta a Isaia Sales, dove si sottolinea il forte e rapido impoverimento del Mezzogiorno d’Italia in termini di capitale umano).
Un ampio capitolo a parte l’Istat guidato dal demografo Blangiardo tocca le tendenze negli equilibri della popolazione dell’Italia e i cosiddetti “percorsi di vita”. È la grande questione demografica, alla quale il Mulino ha dedicato il numero 5 dello scorso anno. Dati già in larga parte noti, ma pur sempre impressionanti, se guardati tutti assieme (si vedano, in particolare, le pagine 115-151 del Rapporto). Soprattuto in riferimento alla crescita della popolazione anziana (compassionalmente, la slide che è stata proiettata in sala non parlava di “vecchi” ma di “invecchiati”). Le stime ci dipingono come un Paese via via sempre più vecchio, nelle proiezioni peggiori addirittura decrepito. Si pensi che, se il dato complessivo ha visto una riduzione della popolazioni di 400 mila unità in quattro anni, quello relativo agli italiani in età compresa tra i 20 e i 34 anni in un decennio ha visto una riduzione di 1 milione e 230 mila unità (il 3% in meno del totale dei residenti) Dal lato opposto, si allunga la speranza di vita e, mentre la fascia di età che va dai 65 ai 74 anni ha perso per i geriatri la connotazione di “anziani” per acquisire quella di “tardo-adulti”; una riclassificazione resasi necessari dalla prevista crescita non solo degli ultraottantenni ma addirittura dei centenari.
Tropo frettolosa, purtroppo, è stata la parte dedicata nell’esposizione della mattinata al peso e al ruolo dell’immigrazione, sia nel mercato del lavoro e nell’economia sia, più in generale, nella società italiana, a cominciare dall’aiuto a rallentare la decrescita demografica (per quanto, come sappiamo, i comportamenti riproduttivi degli stranieri tendano, poco alla volta, ad assumere caratteri via via vicini a quelli degli italiani).
Infine, per chiudere con qualche luce, spazio è stato dedicato ai temi della sostenibilità ambientale e del mantenimento degli impegni da parte del nostro Paese sia rispetto ai parametri dell’Unione europea sia rispetto agli accordi di Parigi per il contrasto al cambiamento climatico, oltre alle potenzialità economiche del settore. Moltissimo resta da fare, eppure su questo il ritardo sembra meno grave rispetto ad altri indicatori.
Come sempre, il Rapporto Istat ha una sua grande utilità perché rimette insieme i dati principali dei diversi aspetti della vita socio-economica del nostro Paese, quei dati che ci arrivano via via lungo l’anno e che il più delle volte occupano lo spazio dei giornali per pochi attimi. Come ogni volta, però, stupisce il divario tra i dati noti da tempo e confermati nella loro tendenza di anno in anno, e la scarsa o del tutto assente capacità di intervenire con sguardi prospettici che aiutino a modificare, seppure lentamente, la rotta. Non fa certo eccezione l’esecutivo attuale, rappresentato questa mattina dalla ministra Bongiorno oltre al già citato Giorgetti, come dimostra, anche in questi giorni, la penosa vicenda del confronto con la Commissione europea sui nostri conti pubblici e sul nostro debito. Un punto, questo, appena accennato dalla relazione del presidente Istat, forse (vogliamo credere) per non aggiungere altro a un quadro di per sé già sufficientemente cupo.
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