Come insegnano le recenti elezioni in Francia e Regno Unito, voti e seggi non sempre coincidono e nascondono molte verità. Tanto che, alla fine, non è chiaro se i vincitori e gli sconfitti siano davvero tali. L’interpretazione corrente di un grande successo laburista e di una tenuta ferrea del fronte repubblicano non regge a una analisi più attenta dei dati.
Partiamo dal caso inglese che presenta, di nuovo ma con una ampiezza mai vista prima, il paradosso del massimo dei seggi con il minimo dei voti. Nessun partito nel dopoguerra è andato al governo avendo ottenuto una percentuale così bassa come quella ottenuta dal Labour di Keir Starmer, appena il 33,7%. Una parziale eccezione rimanda alle elezioni del 2010, quando si verificò l’imprevisto: nessun partito aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi. I conservatori erano arrivati in testa con il 36,1%, seguiti dai laburisti con il 29% e, buoni terzi, i liberaldemocratici con il 23%. L’impasse venne superata con la nascita, per la prima volta, di un governo di coalizione e a Westminster si presentò un esecutivo composto da Tory e liberaldemocratici, seppure con molte esitazioni e perplessità da parte liberale. Al di là di questo episodio isolato, la norma del governo monopartitico ha sempre retto (benché, a volte, esso fosse sostenuto da qualche aiuto esterno: ancora i liberali nel patto lib-lab del 1974 e i vari partiti regionalisti dell’Irlanda del Nord per gli ultimi governi conservatori). La peculiarità delle recenti elezioni consiste nel rapporto mai così squilibrato tra numero di voti e seggi ottenuti. A fronte del 33,7% – il quarto peggior risultato nella storia postbellica del Labour – il partito ha conquistato una iper-maggioranza di ben 411 parlamentari. Solo il trionfo blairiano del 1997 aveva fatto di meglio. Gli strateghi del partito, a partire dal redivivo e sempre brillante Peter Mandelson, ex spin di Tony Balir e, più discretamente, di Starmer, avevano consigliato di puntare tutte le risorse sui 75 collegi marginali dove con il travaso di pochi voti si sarebbe conquistato il seggio. In realtà. A un successo così rotondo ha contribuito un altro fattore: il ritorno in campo di Nigel Farage e del suo eurofobico, xenofobo e securitario Reform Party. Questo partito ha sottratto voti ai Tory tanto da farlo soccombere di fronte al Labour in tantissime circoscrizioni. Inoltre, se si sommano i voti del Reform (14,3%) con quelli dei conservatori (23,7%) questi superano di quasi 5 punti percentuali quelli del Labour.
Tutto ciò rende alquanto opaca l’interpretazione corrente del successo del Labour: e cioè che sia merito della svolta moderata impressa dalla leadership di Starmer. In effetti, il segretario, benché avesse conquistato il partito con una agenda di sinistra non troppo dissimile da quella del suo predecessore, Jeremy Corbyn, nel corso degli ultimi mesi ha sterzato bruscamente in direzione moderata. Ma solo la divisione del fronte avversario ha consentito la vittoria laburista, visto che il partito ha guadagnato appena l’1,6% rispetto alle elezioni precedenti del 2019. La damnatio memoriae con la quale è stato sepolto Corbyn non può far dimenticare il risultato delle sue prime elezioni da leader, nel 2017, quanto portò il partito al 40,0%, ad appena 2,4 punti percentuali dai conservatori. In quell’occasione il Labour, sulla spinta di movimenti come Momentum, aveva abbracciato le posizioni storiche del laburismo riformatore, ma poi era naufragato sull’onda della Brexit, di un leader conservatore trascinante come Boris Johnson, e delle faide interne, oltre a una buona dose di impreparazione e naïveté dello stesso Corbyn. Non ci troviamo quindi di fronte a una vittoria folgorante per via del recente revirement moderato di Starmer. Anzi, si può obiettare che, di fronte al disastro epocale del governo conservatore (e degli indipendentisti scozzesi), è sorprendente che il Labour sia avanzato così poco (e in termini assoluti abbia perso voti rispetto alle precedenti elezioni).
Di fronte al disastro epocale del governo conservatore (e degli indipendentisti scozzesi), è sorprendente che il Labour sia avanzato così poco
Questa vittoria risicata rimanda alla performance del Reform party. I sondaggi lo hanno accreditato di una progressione impressionante di consensi nelle ultime settimane prima del voto, tanto da portarlo a ridosso dei Tory. Lo spostamento a destra dei conservatori ha aperto una breccia nella quale si è buttato Farage, attraendo un elettorato socialmente e territorialmente periferico e sensibile alle sirene sovraniste, nonché favorevole a politiche ancora più duramente anti-immigrati di quelle proposte da governo conservatore. Il Labour ha invece confermato la difficoltà a recuperare il voto della working class non urbana e soprattutto dei working poor. La grande maggioranza alla Camera dei comuni dà l’opportunità al Labour di impostare una politica di trasformazione e “ricucitura” delle fratture del Paese. Un’operazione necessaria per disinnescare l’incombente minaccia populista.
La Francia presenta uno scenario per certi aspetti simile. L’invocazione di un fronte repubblicano a difesa delle istituzioni e dei valori del sistema democratico ha impedito al Rassemblement National di ottenere la maggioranza dei seggi. La sinistra del Nouveau Front Populaire ha fatto desistere ovunque i propri candidati arrivati in terza posizione nel primo turno, e ha riversato quasi integralmente i propri voti sui candidati macroniani o post-gollisti nel secondo turno. Il contrario non è avvenuto con la stessa determinazione a riprova di una scarsa adesione del centro e della destra all’imperativo di sbarrare la strada a Marine Le Pen. Ad ogni modo, la mobilitazione anti-Rn ha sortito i suoi affetti e questo partito si è ritrovato in terza posizione, ben lontano dal sogno della maggioranza assoluta.
Anche in Francia vincitori e sconfitti si incrociano. Il Rn ha perso quella che considerava la sua grande occasione e la prima tappa verso l’Eliseo. Ma si è confermato forte e radicato
I voti assoluti raccontano un’altra storia. Il partito lepenista è di gran lunga il più forte di tutto il sistema partito francese. Ha superato i 9 milioni di voti al primo turno, una cifra nettamente superiore a quella del secondo, Renaissance, il partito del presidente, e del terzo, La France Insoumise. In termini di singoli partiti non c’è competizione: il Rn svetta quanto a sostegno popolare diretto. Solo coalizzando diverse componenti, sia a sinistra nel Nfp, sia al centro sotto l’etichetta di Ensemble, queste formazioni si avvicinano, ma non superano, il Rn. Inoltre, in molte circoscrizioni il candidato lepenista, pur sconfitto, ha superato abbondantemente la soglia del 40%. Anche in Francia, allora, vincitori e sconfitti si incrociano. Il Rn ha perso quella che considerava la sua grande occasione e la prima tappa verso l’Eliseo. Ma si è confermato forte e radicato a eccezione delle grandi città (a Parigi è praticamente inesistente). E si prepara per l’assalto finale. Il partito di Marine Le Pen è il meglio piazzato di tutti perché il Nfp è una coalizione instabile, unita “contro” ma con grande difficoltà a marciare assieme, e il centro macroniano pullula di personalismi e distinguo in attesa delle elezioni presidenziali del 2027.
Se in Gran Bretagna le divisioni della destra hanno consentito a un Labour elettoralmente stagnante di vincere, non è detto che una nuova configurazione dell’opposizione conservatrice – una alleanza o confluenza tra conservatori e “riformisti” di Farage – non offra buone chance di rivincita. Con una radicalizzazione inedita del conflitto politico. Allo stesso modo, se in Francia non si crea una nuova articolazione di sinistra credibile e innovativa, o non viene superata l’illusione che la “palude” centrista sia il centro motore del sistema e non una eccezione irripetibile, avremo sempre più solide vittorie lepeniste.
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