La trasposizione cinematografica del L’amica geniale di Elena Ferrante non fa rimpiangere i romanzi da cui è tratta, anzi aiuta a comprenderne meglio alcuni aspetti, grazie anche a un gruppo eccezionale di sceneggiatori, tra i quali figura la misteriosa autrice (o autore). Saverio Costanzo si conferma un figlio d’arte nel senso migliore della parola. Nei primi episodi, ambientati negli anni Cinquanta e Sessanta in un rione della periferia orientale di Napoli, identificato come il rione Luzzatti di Gianturco, gli accadimenti sono rappresentati in chiaroscuro, senza mai dire «è così e non così». Lo sguardo del regista, forse ancora di più che quello di Elena Ferrante, non è mai giudicante. Prendiamo ad esempio il patriarcato. La rigida divisione dei ruoli nei rioni popolari napoletani del dopoguerra, il ricorso esplicito alla violenza da parte dei padri per ottenere l’obbedienza delle figlie hanno come contraltare la sapienza delle donne nel gestire magri bilanci, aggirare i divieti maschili e preservare l’unità familiare quando necessario. In molti casi i padri appaiono in realtà fragili, incapaci di far fronte ai primi segnali di emancipazione femminile, spaesati nei confronti dei figli maschi che ambiscono a non condurre la vita di ristrettezze alla quale li avrebbe inchiodati il mestiere da essi svolto.
Un altro ambito in cui convivono aspetti di segno opposto è quello della sessualità. Lila, Lenù e le loro amiche, pur non avendo ancora sperimentato la libertà data dalla contraccezione, come avverrà nel Sessantotto, si muovono con più sicurezza rispetto a madri infagottate negli abiti di casa, che non conoscono neanche le cure di un parrucchiere rionale, roba ancora da «signore». Ma al contempo sono tenute all’oscuro degli effetti del menarca e, prima di poter finalmente approdare a un piacere depurato da ogni violenza, dovranno imparare a sciogliere il groviglio inestricabile di «disgusto» verso se stesse e «odio incontenibile» verso l’adulto predatore che senza alcuna morbosità – potrei dire con umana pietà verso la vittima – viene rappresentato nella scena finale del terzo episodio, quella della «fine inattesa» della vacanza ischitana.
La capacità di approfondimento sociologico di cui danno prova sia il romanzo sia la sua trasposizione filmica tende tuttavia ad appannarsi quando si consideri la descrizione della composizione sociale del rione
La capacità di approfondimento sociologico di cui danno prova sia il romanzo sia la sua trasposizione filmica tende tuttavia ad appannarsi quando si consideri la descrizione della composizione sociale del rione. Questa appare infatti del tutto appiattita nella contrapposizione tra un proletariato marginale tradizionale, fatto di scarpari, carrettieri, fruttivendoli e muratori e un ceto di famiglie rampanti arricchitesi con la borsa nera, l’usura e altre attività illecite, pronte a fare il grande salto nella criminalità organizzata. Questa rappresentazione può essere giustificata solo in parte dalla elevata consistenza della componente precaria e più tradizionale all’interno del proletariato e dei ceti popolari napoletani di quegli anni. In realtà, la moderna classe operaia industriale era tutt’altro che assente. Basterebbe ricordare che nel 1951 a Napoli risultavano al censimento ben 8.677 imprese per complessivi 62.318 addetti. Eppure quando Lenù si reca per la prima volta «in città» incontra solo i colleghi del padre, uscieri al Tribunale, e altri dipendenti pubblici come i lavoratori della scuola. Dove sono finite le tute blu? Possibile che nessuno girasse con «l’Unità» ripiegata in tasca? Come mai nel rione non arriva alcuna eco delle lotte che la classe operaia napoletana andava conducendo in quegli anni contro lo smantellamento degli impianti industriali danneggiati dalla guerra?
Del resto non era solo Napoli nel suo insieme ad essere già una città industriale di tutto rispetto. La stessa Gianturco era sede di numerosi impianti petrolchimici di ampie dimensioni, di medie imprese soprattutto nel settore della meccanica di precisione, di concerie, di una Manifattura dei Tabacchi i cui operai si riunivano nel circolo del «dopolavoro»: una componente non proprio residuale della classe operaia cittadina, con una sua rilevanza politico-sindacale. Molti abitanti più anziani ancora ricordano la biblioteca del rione dove Lila e Lenù prendono in prestito i libri, che nello sceneggiato è diretta da un bonario omino che nella realtà è il professor Agostino Collina, che un tempo avremmo definito «un bravo compagno», animatore alla fine degli anni Quaranta della Biblioteca Circolante.Dalla situazione di estrema miseria del rione negli anni Cinquanta e ancor più nel decennio successivo si cominciò di fatto a evadere grazie a educatori che avevano a cuore i più dotati
Dalla situazione di estrema miseria del rione negli anni Cinquanta e ancor più nel decennio successivo si cominciò di fatto a evadere grazie a educatori che avevano a cuore i più dotati, ma soprattutto grazie a una maggiore articolazione della domanda di lavoro, all’aumento dei redditi provenienti dalla previdenza sociale e, in generale, alla diffusione delle forme di intervento del Welfare. Gli scarpari come il padre di Lila Cerullo sono destinati a scomparire non solo per la concorrenza dei prodotti industriali, ma anche per una minore disponibilità dei figli ad arrangiarsi in quei modi tradizionali dovuta proprio al progresso civile e sociale del Paese. Ciò non significa che tutti riescano a sottrarsi al destino di precarietà e miseria dei padri. Tutt’altro. Per quelli che non intraprendono la via dell’arricchimento facile la fabbrica si presenterà spesso ancora come un miraggio. Ma non considerare anche il valore salvifico assunto per molte famiglie dal lavoro in fabbrica è una omissione grave.
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