Un recente studio del McKinsey Global Institute stima che per circa il 60% delle professioni la quota di lavoro che può essere sottratta agli esseri umani e affidata alle macchine non è inferiore al 30%. In particolare, i lavori che si prestano meglio a essere automatizzati in questa fase vanno ricercati nel settore manifatturiero e del commercio al dettaglio.
Se guardiamo alla crescita economica di Paesi come il Giappone negli anni Cinquanta, la Corea e di Taiwan negli anni Sessanta e, più di recente, la Cina negli anni Ottanta del secolo scorso, constatiamo che questi hanno colmato il divario con i Paesi più ricchi puntando su industrie manifatturiere ad alta intensità di lavoro, inizialmente con bassi salari e, per lo più, rivolte alle esportazioni; tali politiche hanno, da un lato, dato lavoro a tanti e, dall’altro, innescato un circolo virtuoso: alti profitti, alti risparmi, alti investimenti, crescente produttività e, infine, salari crescenti. Questo circolo virtuoso potrebbe essere definitivamente distrutto dall’automazione dei lavori manifatturieri a basso costo che, storicamente, hanno costituito il primo passo del circolo virtuoso appena descritto.
In Capitalism in the Age of Robots, Adair Turner, presidente dell’Institute for New Economic Thinking fondato da George Soros, sostiene che, a causa dell’impatto di lungo periodo di automazione del lavoro e intelligenza artificiale, l’automazione, unita al rapido aumento della popolazione, creerà un ostacolo alla crescita economica dei Paesi in via di sviluppo. In particolare, i Paesi dell’Africa, dove la popolazione quadruplicherà entro il 2100, affronteranno una sfida pressoché insormontabile e non è difficile prevedere che i flussi di migranti economici verso l’Europa aumenteranno in modo esponenziale.
Che fare, dunque? Già adesso, a fronte di flussi migratori tutto sommato contenuti, i Paesi europei stanno adottando politiche di chiusura e di respingimento che appaiono deficitarie da una duplice prospettiva. Se guardiamo alla loro efficacia, esse non risultano idonee a raggiungere il risultato voluto. Pensare di bloccare ingenti masse di persone ergendo muri equivale a tentare di svuotare il mare con un cucchiaino. Tale conclusione è tanto più ineluttabile quanto più ampi sono i flussi di esseri umani. Se, dunque, la previsione di un aumento esponenziale dei migranti economici è ben fondata, le dighe e gli argini che stiamo costruendo sono fatalmente destinati a essere spazzati via.
La politica dei respingimenti è una politica dispendiosa e poco redditizia. Anche l’artificio che consiste nel distinguere tra migranti “buoni” e “cattivi”, a seconda che si tratti di richiedenti asilo o migranti economici, appare pretestuoso e ipocrita. Come osserva, in modo inoppugnabile, Donatella Di Cesare in Stranieri residenti, “la persecuzione può avere molti volti nei nuovi innumerevoli conflitti politici, etnici, religiosi. Può avere il volto della siccità”. Sempre di più la migrazione avrà il volto della fame e della sete.
C’è, poi, anche il profilo etico che merita di essere preso in considerazione. La tutela dei diritti dei migranti è attualmente il banco di prova più impegnativo per la cultura dei diritti umani. Gustavo Zagrebelsky, nel suo recente Diritti per forza, osserva che, spesso, i diritti dei migranti sono privi di qualsiasi tutela, a dispetto del fatto che le convenzioni internazionali e le costituzioni nazionali garantiscano a tutti, cittadini e stranieri, la protezione minima essenziale della propria dignità personale. La cultura dei diritti umani dovrebbe rappresentare un baluardo contro ciò che è insopportabilmente sbagliato o, ricorrendo a Isaiah Berlin, contro l’idiozia morale. Tutto questo può essere riassunto dicendo che i diritti umani tutelano la dignità di tutti gli esseri umani e impediscono che alcuni esseri umani possano guardarne altri come attraverso il vetro di un acquario, per usare la metafora di Primo Levi in Se questo è un uomo.
In definitiva, il progresso morale promesso dai diritti umani consiste nel rendere le nostre comunità sempre più inclusive e nel concedere a tutti, indistintamente, il diritto di avere diritti, per dirla con Hannah Arendt. I muri mettono in crisi tutto questo e, dunque, oltre a essere inefficaci al fine di arrestare i flussi migratori, rischiano di far disperdere una delle principali acquisizioni del mondo del post-olocausto, vale a dire l’idea che esistano alcuni diritti che spettano a tutti in quanto esseri umani.
Che fare, dunque? La domanda non può che rimanere inevasa. Norberto Bobbio, interrogandosi sul futuro della democrazia, ricorda che Max Weber, a chi gli chiedeva del futuro della Germania, rispondeva “la cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti”. Sapere ciò che non siamo e ciò che non vogliamo è già un buon punto di partenza.
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