Oggi consideriamo il successo nel modo in cui i puritani consideravano la salvezza: non come una questione di fortuna o di grazia, ma come qualcosa che guadagniamo con il nostro sforzo e con il nostro impegno. Questo è il cuore dell’etica meritocratica. Celebra la libertà – la capacità di controllare il mio destino a forza di duro lavoro – e il merito. Se io sono responsabile per aver accumulato una quota considerevole di beni terreni – reddito e ricchezza, potere e prestigio – non posso non meritarmela. Il successo è un segno di virtù. La mia ricchezza è ciò che mi spetta.

Questo modo di pensare è emancipante. Incoraggia le persone a pensare a se stesse come responsabili per il proprio destino, non come vittime di forze al di là del proprio controllo. Ma ha anche un lato oscuro. Più consideriamo noi stessi come individui che si sono fatti da sé e autosufficienti, meno è probabile che ci preoccupiamo per il destino di quanti sono meno fortunati di noi. Se il mio successo è dovuto a me stesso, il loro fallimento non può non essere una loro colpa. Questa logica rende la meritocrazia corrosiva di ciò che ci accomuna. Un’idea che insiste troppo sulla responsabilità personale per il nostro destino rende difficile immaginare noi stessi nei panni degli altri.

Se io sono responsabile per il mio reddito e la mia ricchezza, non posso non meritarmela. Il successo è un segno di virtù. La mia ricchezza è ciò che mi spetta. Ma questo modo di pensare ha in sé un lato oscuro

Negli ultimi quarant’anni, i presupposti meritocratici si sono radicati nella vita pubblica delle società democratiche. Anche se la disuguaglianza si è diffusa in vaste proporzioni, la cultura pubblica ha rafforzato l’idea che noi siamo responsabili del nostro destino e che meritiamo ciò che otteniamo. È quasi come se i vincitori della globalizzazione avessero bisogno di persuadere se stessi, e tutti gli altri, che quanti stanno appollaiati in cima e quanti stanno in basso siano approdati nel posto che spetta loro. Oppure, in caso contrario, che approderebbero nel posto che spetta loro se solo fossimo in grado di rimuovere le inique barriere alle opportunità. Negli ultimi anni la discussione politica fra i partiti mainstream di centrodestra e di centrosinistra è consistita prevalentemente in un dibattito su come interpretare e implementare l’uguaglianza di opportunità, in modo che le persone siano in grado di salire fin dove le porteranno i propri sforzi e i propri talenti.

La prima volta che notai la marea montante del sentimento meritocratico è stato ascoltando i miei studenti. Poiché insegno Filosofia politica a Harvard dal 1980, talvolta mi viene chiesto come sono cambiate le opinioni degli studenti negli anni. In genere, trovo che questa sia una domanda a cui è difficile rispondere. Nei dibattiti in aula sugli argomenti che insegno – la giustizia, i mercati e la morale, l’etica delle nuove tecnologie – gli studenti hanno sempre dato voce a un’ampia gamma di punti di vista morali e politici. Non ho notato alcuna tendenza netta, con un’eccezione: a partire dagli anni Novanta e ancora oggi, tra i miei studenti sono sempre più coloro che sembrano attirati dalla convinzione che il loro successo sia dovuto a se stessi, il risultato del proprio sforzo, qualcosa che hanno guadagnato. Questa fede meritocratica si è rafforzata tra gli studenti ai quali insegno.

All’inizio, ho ipotizzato che ciò fosse perché erano diventati maggiorenni durante l’era di Ronald Reagan e avevano assimilato la filosofia individualistica dell’epoca. Ma questi non erano, per la maggior parte, studenti conservatori dal punto di vista politico. Le intuizioni meritocratiche attraversano lo spettro politico. Emergono con particolare intensità nelle discussioni sulle azioni positive nelle ammissioni al college. Che gli studenti siano a favore o contro le azioni positive, la maggior parte di loro dà voce alla convinzione di aver lavorato duro per aver titolo all’ammissione a Harvard e, quindi, di aver meritato il proprio posto. L’idea di essere stati ammessi grazie alla fortuna o ad altri fattori al di là del loro controllo provoca forte resistenza.

Non è difficile comprendere il sentimento meritocratico crescente tra gli studenti in college selettivi. Nell’ultimo mezzo secolo, l’ammissione ai college d’élite è diventata sempre più scoraggiante. Fino a metà degli anni Settanta, Stanford accettava quasi un terzo di quanti presentavano domanda. Nei primi anni Ottanta, Harvard e Stanford accettavano circa un candidato su cinque; nel 2019, hanno accettato poco meno di uno su venti. Via via che la competizione per l’ammissione si è fatta più agguerrita, gli anni dell’adolescenza per i ragazzi che aspirano ai college migliori (o a cui aspirano i genitori per loro), sono diventati il campo di battaglia di una lotta febbrile: un regime di corsi di Advanced Placement dal programma molto fitto, dalla pressione altissima e fonte di stress; consulenti privati per il college; tutor per i sat; atletica e altre attività extracurriculari; tirocini e buone azioni in posti lontani, progettati per impressionare le commissioni di ammissione dei college. Il tutto supervisionato da ansiosi iper-genitori in cerca del meglio per i propri figli.

È difficile emergere da questa competizione fatta di stress e di lotta senza credere di aver guadagnato, grazie allo sforzo e al duro lavoro, qualsiasi successo si incontri sulla propria strada. Ciò non rende gli studenti egoisti o poco generosi. Molti dedicano gran parte del proprio tempo ad attività di pubblico servizio o ad altre buone azioni. Ma l’esperienza li rende dei meritocratici convinti; come i loro antenati puritani, credono di meritare il successo che il duro lavoro ha fatto conquistare loro.

La sensibilità meritocratica che ho notato tra gli studenti del college non è un fenomeno soltanto americano. Nel 2012, tenni una lezione all’Università di Xiamen, sulla costa sud-est della Cina. Il tema da me trattato era i limiti morali del mercato. Poco tempo prima i giornali avevano riportato la notizia di un adolescente cinese che aveva venduto un rene per comprarsi un iPhone e un iPad. Chiesi agli studenti che cosa pensassero di questo caso. Nel dibattito che ne seguì, molti studenti adottarono il punto di vista libertario: se l’adolescente acconsentiva liberamente, senza pressioni o coercizione, a vendere il proprio rene, doveva avere il diritto di farlo. Altri non erano d’accordo e argomentarono che è iniquo che i ricchi siano in grado di prolungare le proprie vite comprando reni dai poveri. Dal fondo dell’aula, uno studente replicò che, avendo guadagnato la loro ricchezza, i ricchi sono persone meritevoli e quindi si meritano di vivere più a lungo.

Fui sorpreso da questa sfrontata applicazione del modo di pensare meritocratico. A posteriori, mi rendo conto che è moralmente affine alla credenza del vangelo della prosperità secondo la quale la salute e la ricchezza sono segni del favore di Dio. Ovviamente, è probabile che lo studente cinese che l’aveva espressa non fosse influenzato dalle tradizioni puritane o provvidenzialistiche. Ma lui e i suoi compagni di classe avevano raggiunto la maggiore età durante il passaggio della Cina a una società di mercato.

L’idea che quanti hanno successo meritano i soldi che guadagnano è radicata nelle intuizioni morali degli studenti che ho incontrato durante le mie visite a diverse università cinesi nel corso dell’ultimo decennio

L’idea che quanti hanno successo meritano i soldi che guadagnano è radicata nelle intuizioni morali degli studenti che ho incontrato durante le mie visite a diverse università cinesi nel corso dell’ultimo decennio. Nonostante le differenze culturali, questi studenti cinesi, al pari dei miei studenti di Harvard, sono i vincitori di un processo di ammissione iper-competitivo, che si svolge sullo sfondo di una società di mercato iper-competitiva. Non sorprende che essi resistano al pensiero che noi siamo in debito per il nostro successo e che siano attratti dall’idea che noi guadagniamo, e quindi meritiamo, qualsiasi ricompensa il sistema conceda ai nostri sforzi e talenti.

[…] Negli ultimi quattro decenni, il lessico del merito e della meritevolezza è diventato centrale nel discorso pubblico. Un aspetto della svolta meritocratica mostra il lato duro della meritocrazia. Questo aspetto trova espressione nelle esigenti idee sulla responsabilità personale che hanno accompagnato i tentativi di tenere a freno il Welfare e di spostare i rischi dai governi e dalle aziende agli individui. Un secondo aspetto della svolta meritocratica è più in termini di aspirazione. Trova espressione in ciò che possiamo chiamare la retorica dell’ascesa, la promessa che quanti lavorano duro e giocano secondo le regole meritano di salire fin dove i loro talenti e i loro sogni li portano. La retorica della responsabilità personale e la retorica dell’ascesa, avendo animato l’argomentazione politica negli ultimi decenni, alla fine hanno contribuito alla reazione populista contro la meritocrazia.

Quando l’1% più ricco si intasca di più rispetto alla somma dei guadagni dell’intera metà della popolazione che sta in basso e quando il reddito mediano non cresce da quarant’anni, l’idea che lo sforzo e il duro lavoro ti possono portare lontano inizia a suonare vacua. Questa vacuità produce due forme di malcontento. Una è la frustrazione che sale quando il sistema disattende le sue promesse meritocratiche, quando coloro che lavorano sodo e giocano secondo le regole non riescono ad avanzare. L’altra è la disperazione che sorge quando le persone credono che la promessa meritocratica sia stata già realizzata e loro ne sono stati esclusi. Questo è un malcontento ancora più demoralizzante, perché implica che, per quelli che sono stati lasciati indietro, il fallimento è una loro colpa.

 

[La traduzione del volume è di Corrado Del Bo’ ed Eleonora Marchiafava]