Martedì scorso – mentre la polizia, filmata da attivisti e presenti, finiva di sgombrare a colpi di gas lacrimogeno un campo profughi che «ospitava» circa 2500 persone a Saint-Denis, nel nord di Parigi – decine di manifestazioni si sono tenute nella capitale francese e in altre città della Francia, nonostante il confinement. Davanti all’Assemblée nationale qualche migliaio di persone si erano ritrovate per protestare contro la cosiddetta «Loi Sécurité Globale». La giornata è finita in scontri: 33 fermati, tra cui due giornalisti per assembramento (durante una manifestazione autorizzata), altri hanno ricevuto colpi di manganello e intimidazioni.

La legge «Sécurité Globale» è stata presentata a inizio novembre da due deputati della La république en marche (Lrm, il partito del presidente della République, Macron) con il sostegno del governo: le discussioni sono iniziate lo stesso martedì 17 e una parte della legge è stata approvata in soli tre giorni.

Sabato 21 novembre un nuovo assembramento, questa volta più grande e più organizzato, si è tenuto alla Piazza del Trocadero – con il parvis des “Droits de l’Homme” barricato dietro griglie in metallo dietro le quali si poteva vedere la tour Eiffel e qualche decina di Crs, «ma il governo si rende conto dei simboli che fabbrica?», si chiede Mediapart – mettendo insieme almeno 10 mila persone (25 mila secondo le associazioni che lo hanno organizzato). Manifestazioni e assembramenti si sono tenuti in almeno altre 20 città.

Contro l’approvazione di questa legge si sono mobilitati i sindacati, le società di redazione di praticamente tutti i media in Francia, compresi quelli di Stato – comprese anche testate non proprio gauchistes, come «Le Figaro» o «Le Parisien» –, registi di documentari, collettivi di famiglie vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine, associazioni di difesa delle libertà civili e digitali, parlamentari di diversi partiti, Ong (Amnesty international, Attac) e la Ligue des droits de l’homme che ha fornito attestazioni a tutti i partecipanti. In piazza c’erano tantissimi giornalisti quindi, ma tanti giovani (liceali e universitari), i gilets jaunes, tanti e tante, anche, che non hanno l’abitudine di andare in piazza.

Inizialmente pensata per le polizie municipali e la sicurezza privata, la legge «Sécurité Globale» ha un articolo (il 24, il più contestato e il più mediatizzato) che ha come obiettivo vietare l’uso «doloso» (l’usage malveillant) delle immagini che ritraggono le forze dell’ordine. La pena prevista va da un anno di prigione fino a 45 mila euro di multa: l’articolo impone di «pixellizare» il volto o qualunque altro elemento di riconoscimento dei poliziotti protagonisti delle foto o dei video. Questo articolo del testo è stato aggiunto, formalmente, dopo alcune minacce di aggressione che membri delle forze dell’ordine hanno ricevuto in seguito a immagini pubblicate sui social network. «Non si tratta di impedire di filmare o diffondere: la legge verrà applicata a posteriori quando è provata l’”intention malveillante"», ha rassicurato il governo. Mentre nella sostanza il ministro degli Interni Gérald Darmanin aveva annunciato durante un congresso del sindacato di polizia Unsa police, lo scorso settembre, di voler «vietare la diffusione delle immagini dei volti dei rappresentanti forze dell’ordine».

«Redatta come risposta clientelare alla richiesta di anonimato dei sindacati di polizia, questa legge viola gravemente un diritto democratico», ha commentato «Le Monde». L’opposizione alla legge arriva anche dal Défenseur des droits, organo indipendente del governo, dalla Commissione nazionale francese dei Diritti dell’uomo (Cncdh) e dall’Alto commissariato per i diritti dell’uomo dell’Onu.

Ma perché questo articolo della legge sarebbe così problematico?

Dal 2008 una circolare del ministero degli Interni ricorda che «i rappresentanti delle Forze dell’ordine non possono opporsi a essere ripresi durante l’esercizio delle loro funzioni». Devono essere identificabili e poter rendere conto del loro operato: è infatti – sempre solo formalmente – obbligatorio il numero identificativo delle forze dell’ordine (Rio). Si tratta di un numero visibile sulla divisa quando i poliziotti sono in tenuta antisommossa, quindi non identificabili né distinguibili. Nella pratica è rarissimo vedere poliziotti in tenuta antisommossa che lo espongono; ancora più raro è che vengano presi provvedimenti contro chi non lo espone.

Per quanto riguarda la loro vita privata, i poliziotti, come tutti i cittadini, beneficiano dell’articolo 226-1 del codice penale, che punisce chi riprende e usa immagini di un rappresentante delle forze dell’ordine in un contesto altro dall’esercizio delle funzioni.

Come decidere l’ intention malveillante quindi? Qualunque immagine, accompagnata da un commento critico, potrebbe essere «accusata di voler nuocere alle forze dell’ordine», ha commentato «Reporters sans frontières».

«Nessuno può negare che le condizioni di lavoro di poliziotti e gendarmi siano sempre più dure. Né può essere negato l’uso pernicioso che può essere fatto di un’immagine. Ma, dalle manifestazioni dei gilets jaunes a quelle contro la riforma delle pensioni, l'aumento preoccupante della violenza della polizia è un fatto e presuppone contro-poteri forti. […] Ambigua e di difficile applicazione, questa legge rischia di aggravare ulteriormente il rapporto tra polizia e cittadini, che necessita invece di essere pacificato» (Le Monde, 7.11.2020).

Con la legge «Sécurité Globale» in vigore non sarebbero stati portati all’attenzione della stampa e delle autorità l’affaire Benalla (il collaboratore personale di Macron che ha aggredito dei manifestanti indossando una divisa senza essere poliziotto, maggio 2018), il caso di Cédric Chouviat, ucciso per soffocamento dalla polizia nel gennaio del 2020, o le gravi ferite riportate da Geneviève Legay durante una carica ingiustificata della polizia nel 2019 – solo per citare i più recenti – tutti casi che sono emersi grazie a video fatti da cittadini o giornalisti che documentavano episodi di violenza in piazza.

"Questa legge priverà il popolo nel suo complesso di un diritto che gli appartiene. Il diritto di informare, di far conoscere, di allertare e di contestare" (il presidente di Mediapart)«La libertà di stampa non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini. […] Dando alla stampa il monopolio dell'informazione, questa legge priverà il popolo nel suo complesso di un diritto che gli appartiene. Il diritto di informare, di far conoscere, di allertare e di contestare, anche»(Editoriale di Edwy Plenel, presidente di Mediapart).

A seguito dell’approvazione della legge «Le Monde» ritorna sulla questione con un editoriale, questa volta firmato dal direttore Jérôme Fenoglio che punta il dito contro la militarizzazione della polizia e contro il mancato rispetto della libertà di informazione: «È evidente da diversi aspetti: l'inutile legge contro le fake news, le minacce di perseguire le fonti giornalistiche, la convocazione e la detenzione di alcuni di reporter… il governo e il presidente hanno un problema con la libertà di informazione».

«La polizia non è una milizia: deve essere identificabile e poter rendere conto delle sue azioni. Oggi lo fa poco e ce ne stiamo rendendo sempre più conto negli ultimi mesi», dice David Dufresne, giornalista indipendente che lavora da anni sulla questione delle violenza delle forze dell’ordine e autore di Un pays qui se tient sage, documentario che racconta le violenze subite dal movimento dei giles jeunes. Il film di Dufresne, altro esempio, è costruito proprio con le immagini di violenze diffuse sul web.

Il dibattito sulla legge «Sécurité Globale» si concentra sulla questione del riconoscimento delle forze dell’ordine, che ne è un punto centrale. Va aggiunto che la stessa legge, nell’articolo 21, vuole deregolamentare l’uso delle videocamere usate dalle forze dell’ordine durante le manifestazioni (quindi dare l’accesso ai poliziotti ai dati contenuti e al conseguente riconoscimento facciale) e, nell’articolo 22, vuole legalizzare la sorveglianza fatta attraverso i droni durante le manifestazioni.

Perché è ancora più importante in Francia? Qui c’è un problema specifico, preciso e circostanziato di violenza delle forze dell’ordine. Più che altrove? Io inizio a pensare di sì. 

"La polizia non è una milizia: deve essere identificabile e poter rendere conto delle sue azioni. Oggi lo fa poco e ce ne stiamo rendendo sempre più conto negli ultimi mesi". In Francia c'è un problema preciso e circostanziato di violenza delle forse dell'ordine, forse più che altrove

Per anni non si è potuto usare il termine «violences policières»: era inaccettabile sui media nonostante i social network esplodessero di video e immagini che non che non lasciavano dubbi. L’ex ministro degli Interni, Christophe Castaner, ancora nel 2019, ne negava l’esistenza; la portavoce del governo faceva lo stesso nel gennaio scorso: «Non penso si possa dire che in Francia ci sono violenze da parte delle forze dell’ordine».

Il movimento dei gilets jaunes ha fatto esplodere la questione: è ora praticamente impossibile guardare il dito, tanto la luna è piena. Il primo editoriale chiaro su questo tema di «Le Monde», per esempio, è del gennaio del 2020: è stato accolto con un sospiro, tanto era in ritardo rispetto alla percezione della società civile. E la luna è talmente piena che una risoluzione del Parlamento europeo del febbraio del 2019 ha condannato l’uso della forza fatto dalla polizia francese; l’Onu, non la Federazione anarchica, ha parlato delle gravi restrizioni alla libertà di manifestazione registrate in Francia, non solo per quanto riguarda i divieti, i controlli illeciti ma anche e soprattutto per l’uso di armi considerate «non letali» come le granate (non solo lacrimogene) o il flash ball che sono costate in totale – secondo i dati raccolti da Dufresne – 346 persone ferite alla testa, 30 che hanno perso un occhio, 5 le mani. E 4 morti. In totale sono oltre 1.700 (dato non affidabilissimo) i feriti durante le manifestazioni dei gilets jaunes.

Tra novembre 2018 e luglio 2019, Amnesty international ha censito circa 11 mila persone messe in custodia: oltre la metà non hanno avuto conseguenze legali a seguito del fermo. E poi ci sono le accuse di razzismo, cosa che i quartieri populaires, come li definiscono qui – ovvero le banlieue abitate da classi popolari, spesso razializzate – subiscono da decenni. Il giornalista e militante Taha Bouhafs sostiene che la violenza che oggi vediamo in piazza è quella che per anni è stata sperimentata dalle banlieues francesi. Secondo un sondaggio – che va letto quindi come tale – il 50% dei membri delle forze dell'ordine e dei militari intervistati ha dichiarato di aver votato Marine Le Pen alle presidenziali del 2017.

Intorno a me le persone continuano ad andare in piazza ma, al di là del grado di «militanza» e dell’implicazione, tanti che, andrebbero o andavano, non vanno. Perché hanno paura. E non dei manifestanti.