La politica in tema di immigrazione prosegue senza soluzione di continuità tra i due governi precedenti e quello attuale. Al fine di dimostrarlo conviene comporre un quadro d’insieme, unendo le diverse tessere del mosaico.

Occorre partire dal “Memorandum d'intesa” stipulato tra il governo italiano (Gentiloni) e il governo libico (Al Serraj) il 2 febbraio 2017. Il Memorandum in vigore fino al 2 febbraio 2020 – è stato tacitamente rinnovato, sia pure con la richiesta dell’Italia di rimodularne i contenuti (v. infra). Negli ultimi anni, sono state molte le denunce di violazioni dei diritti umani documentate dall’Onu all’interno dei centri ipocritamente definiti “di accoglienza” (ma si tratta di vere e proprie prigioni: 19 centri ufficiali, ove sono presenti più di 5.000 persone).

Da ultimo, il Parlamento europeo, in una proposta di risoluzione dell’ottobre scorso, ha ribadito – analogamente a quanto già attestato dalla commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa – che in quei centri le persone sono «esposte a detenzioni arbitrarie in condizioni disumane e […] la tortura e altri maltrattamenti, compresi gli stupri, nonché le uccisioni arbitrarie e lo sfruttamento, sono endemici». Ebbene, nonostante tutto questo, il Memorandum è stato rinnovato, e con esso i contributi economici alla Libia: perché gli “indicibili orrori” dei campi di detenzione avvengono anche con i soldi dei cittadini italiani. Nel Memorandum l’Italia si obbliga pure a “fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici”: per assolvere a tale impegno, ha consegnato alla Libia motovedette e addestrato i componenti della guardia costiera (senza alcun monitoraggio al riguardo).Che cos’altro si sa circa l’implementazione del Memorandum? Praticamente niente, perché il ministero dell’Interno ha opposto rifiuti a istanze di accesso finalizzate a ottenere trasparenza. Invece, è noto quanto è emerso da recenti inchieste giornalistiche: a incontri per definire l’attuazione dell’accordo ha partecipato un trafficante, Abd al-Rahman Milad, detto “Bija”, che al contempo è a capo della guardia costiera. E questo fa capire molte cose. Perché il Memorandum è stato rinnovato? Formalmente, per svolgere insieme alla Libia un’attività di contrasto “all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando”. Nella sostanza, la finalità perseguita dai governi italiani sin dall’inizio è stata quella di evitare, avvalendosi dei libici, che i migranti arrivassero sulle nostre coste. Infatti, qualche mese dopo la stipula, gli sbarchi sono crollati. Di ciò si è attestato il merito il ministro Minniti e, nel settembre scorso, l’attuale ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha dichiarato: «Gli accordi con la Libia li teniamo in piedi, la guardia costiera libica sta facendo un buon lavoro». Può essere definito “un buon lavoro” intercettare i migranti in mare e riportarli nei centri di prigionia, mentre comunque aumenta la percentuale di quelli che muoiono in mare? Si è detto che il governo italiano ha chiesto alcune modifiche al Memorandum: in particolare, una graduale chiusura dei centri di detenzione per sostituirli con centri gestiti dall’Onu. È credibile che i libici retrocedano in favore dell’Onu, se le organizzazioni internazionali non possono neppure accedere ai centri, salvo che in modo “limitato e sporadico”? C’è da dubitarne molto.

Occorre aggiungere un’altra tessera al mosaico sull’immigrazione. Sempre nel 2017, a luglio, il ministro dell’Interno chiese alle Ong la sottoscrizione di un Codice di condotta per le operazioni di salvataggio dei migranti in mare. Si tratta di un atto privo di valore di legge, che vincola solo le parti, ma da cui emerge un atteggiamento nei riguardi delle navi di soccorso che qualcuno ha definito come “criminalizzazione”. Il Codice contiene un elenco di obblighi volti soprattutto a limitare le azioni delle navi: le Ong possono essere sottoposte a ispezioni a bordo; si impegnano a non trasferire i naufraghi su altre navi; non possono entrare nel mare libico, se non in situazioni di pericolo, senza ostacolare la guardia costiera; devono fare trasparenza sui propri finanziamenti; hanno il divieto di inviare comunicazioni o segnali luminosi per agevolare la partenza e l’imbarco di natanti con migranti, salvo che durante eventi di ricerca e soccorso. Alcune disposizioni del Codice, da un lato, sembrano andare contro obblighi internazionali sul salvataggio (ad esempio, l’impegno a non entrare nelle acque libiche comprime il diritto di passaggio inoffensivo di cui godono tutte le navi); dall’altro, paiono “perseguire il fine pratico di “intimorire” le Ong, che di conseguenza potrebbero diminuire i propri sforzi in materia di ricerca e soccorso. Eppure Lamorgese, a ottobre, ha dichiarato che “bisogna ripartire dal Codice delle Ong proposto dal ministro Minniti” e nei giorni scorsi, in sede Ue, ha richiesto un “codice di regolamentazione delle imbarcazioni di tipo privato che vanno nella acque del Mediterraneo”. Quindi, pure sotto questo profilo, la continuità è chiara.

Riguardo al Codice Minniti si segnala un aspetto singolare. Nel settembre 2019 la Libia ha emanato un provvedimento che è stato definito “un ‘decreto Minniti’ in salsa libica”, poiché reca diverse disposizioni analoghe a quelle sopra elencate: tra le altre cose, le navi di soccorso delle Ong devono chiedere l’autorizzazione a Tripoli prima di svolgere azioni nel mare libico e rispettare le regole date, altrimenti sono sequestrate (sanzione prevista anche nella legge Sicurezza bis); possono essere sottoposte a ispezioni da parte della guardia costiera e non devono intralciare le operazioni di quest’ultima; hanno il divieto di inviare comunicazioni o segnali per facilitare l’arrivo di imbarcazioni. Non serve aggiungere altro.

Un’altra tessera del mosaico in tema di immigrazione è rappresentata dall’accordo di Malta del settembre scorso, firmato da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta (con il successivo assenso alla partecipazione di Portogallo, Lussemburgo e Irlanda): è una intesa fra Stati “volenterosiper la ripartizione dei migranti. Il testo reso noto prevede, tra l’altro, che l’accordo resti in vigore per sei mesi, salvo rinnovo; che il ricollocamento riguardi solo gli stranieri salvati in mare (9% del totale), dunque non quelli che arrivano con sbarchi autonomi; che, se il numero degli arrivi aumentasse in modo sostanziale, il meccanismo fosse sospeso. Ma si dispone pure che le imbarcazioni di soccorso non debbano inviare segnali luminosi o altre comunicazioni per facilitare la partenza di barche che trasportano migranti dalle coste africane, come previsto dal Codice Minniti e dal decreto libico sopra esposti, e che le operazioni delle guardie costiere, inclusa quella libica, non vengano ostacolate: sotto questi profili, la continuità è palese. Di recente, alcuni giornali, riprendendo dati diffusi dal Viminale, hanno scritto che – grazie all’accordo di Malta – 8 migranti su 10 vengono ricollocati. La situazione resta invece molto simile alla precedente.

C’è un’altra tessera da aggiungere al mosaico che si sta componendo. Il Tribunale dei ministri di Roma, nei giorni scorsi, ha archiviato l'indagine sull'ex ministro dell’Interno Matteo Salvini per abuso d'ufficio e rifiuto di atti di ufficio, riguardo alla vicenda della nave Alan Kurdi della Ong Sea Eye, che nell’aprile 2019 aveva soccorso migranti nel tratto di mare fra Italia e Libia. I giudici hanno fornito un’interpretazione singolare circa il ruolo dei soggetti che intervengono nel salvataggio, basandosi su norme inappropriate. Non ci si soffermerà su questo profilo, poiché la decisione serve come spunto per spiegare un altro elemento di continuità fra governi. Le regole internazionali (Conv. sulla ricerca e soccorso in mare, Search and rescue, 1979, emendata nel 2004, punto 3.1.9, oltre alla Conv. Onu sul Diritto del Mare, 1982 e alla Conv. per la salvaguardia della vita umana in mare, Solas, emendata nel 1974) prevedono che del coordinamento dei soccorsi debba farsi carico lo Stato responsabile della zona Sar dove è avvenuto l’incidente, eventualmente contattato dallo Stato che per primo ne viene a conoscenza (Linee guida sul soccorso in mare, 2004, Organizzazione marittima internazionale). Le operazioni di salvataggio devono concludersi in un “porto sicuro, cioè ove i naufraghi non siano più esposti a rischi e possano accedere a beni e servizi fondamentali, nonché vedere rispettati i loro diritti.

Ai sensi della Conv. Sar, ogni Paese stabilisce la propria “zona Sar”, con un Centro di coordinamento delle relative operazioni. Nel giugno 2018 la zona Sar libica è stata iscritta nel registro dell'Imo: così la Libia è divenuta formalmente competente per quell’area. Ma, pur essendo lo Stato coordinatore, non può indicare un proprio “place of safety”: è uno Stato in guerra, non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, né tutela i migranti presenti nel Paese dalle menzionate violazioni dei diritti umani. Dunque, se il Centro di coordinamento libico designa un proprio porto per l’approdo della nave in difficoltà, il comandante è legittimato a non conformarsi all’indicazione. Che cosa accade allora? C’è un vuoto normativo, cioè non esistono criteri per l’individuazione di uno Stato obbligato a fornire un “porto sicuro” in casi come questo: pertanto, la nave chiede ad altri Centri un porto in cui approdare e, nel mentre, resta in attesa in mare. Questo è accaduto nella vicenda trattata dal Tribunale ed è ciò che continua ad accadere. In situazioni come questa, dato il suddetto vuoto normativo, che cos’è cambiato col nuovo governo? Le acque territoriali non vengono più scenograficamente chiuse mediante l’esercizio del potere di cui alla seconda legge Sicurezza, ma alle navi di soccorso viene consentito di approdare per lo più solo quando altri Stati si impegnino ad accogliere gli stranieri a bordo. Anche sotto questo profilo la continuità è palese.

Infine, l’ultima tessera del mosaico. Non vi sarà alcuno smantellamento delle due leggi Sicurezza – nonostante nelle settimane scorse si continuasse a parlare di rilevanti modifiche da apportare in conformità alle richieste dal capo dello Stato – e per saperlo sarebbe bastato leggere le lettere con cui Mattarella aveva accompagnato il varo del primo decreto Sicurezza e della legge di conversione del secondo. Circa quest’ultima, il Quirinale chiedeva di limitare l’ammontare delle sanzioni per la violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali (da 150 mila euro fino a un milione), di rispettare la proporzionalità tra pene e comportamenti, di precisare i parametri per la graduazione delle sanzioni stesse. Tali indicazioni saranno recepite, ma ciò significherà intervenire su un’unica disposizione.

Quindi, rimarrà intatto il potere del Viminale di vietare l’entrata delle navi di soccorso, a disposizione di un futuro ministro che intenda usarlo come fatto da Salvini. Quanto al primo decreto Sicurezza, il capo dello Stato non aveva suggerito modifiche, limitandosi a sottolineare che «restano "fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato" […] in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali». Probabilmente, il presidente intendeva tra l’altro rilevare che, nei casi in cui lo straniero non abbia titolo a godere di asilo politico o protezione sussidiaria, l’applicazione diretta dell’art. 10, c. 3, Cost. può comunque consentire di concedergli il permesso umanitario, abolito dal primo decreto Sicurezza. Per segnare discontinuità con il passato, Lamorgese avrebbe potuto ripristinare la disciplina sulla protezione umanitaria: invece, si limiterà al mero inserimento nella legge della formula indicata da Mattarella.

In tema di immigrazione c’è dunque discontinuità rispetto al passato? Il mosaico composto dovrebbe avere chiarito la risposta.