Strumentalizzazione e amnesia svolgono un ruolo politico evidente. I fatti di Macerata hanno dato spunto alla impraticabile promessa di rispedire a casa 600.000 irregolari. Amnesia fa rima con amnistia: Berlusconi, autore della promessa acchiappavoti, nel 2002 fece la più vasta sanatoria italiana, e la Lega era in quel governo.

Strumentalizzazioni e amnesie riguardano non solo eventi risonanti, ma anche provvedimenti simbolicamente intensi come lo ius soli. Qualche esempio. A Fini, presidente della Camera, per aumentare il suo potenziale di coalizione spostandosi verso il centro, poteva tornare utile una dichiarazione pro ius culturae: cittadinanza basata sull’istruzione. Giulia Bongiorno, finiana doc, che ne pensa oggi come candidata leghista?

Lo ius soli aiuta a entrare in coalizioni, ma anche a romperle. Per Liberi e Uguali la mancata approvazione dello ius soli è uno dei peccati imperdonabili del Pd. Ma Livia Turco lanciò la proposta fin dal 1999. Da allora lo ius soli non passò neanche con governi guidati dagli attuali leader scissionisti.

I 5 Stelle ci giocano in base ai sondaggi. Nel giugno 2013 presentano un progetto inclusivo (C.1204) firmato da tutti i big. Per quanto riguarda, ad esempio, il requisito della residenza regolare di almeno un genitore bastavano solo 3 anni, e facilitare la cittadinanza costituiva per i penta stellati di allora “una misura di integrazione positiva” (art. 1). Quattro anni dopo, giugno 2017, Grillo annuncia l’astensione sulla riforma voluta dal governo (Atto Senato n. 2092) anche se è più selettiva del loro vecchio progetto. Di Maio infine afferma che “come Paese rischiamo di scatenare un pull factor che significa fare una legge per la cittadinanza che attragga ancora più migranti verso l'Italia”. E, come è noto, i migranti si muovono sulla base di un’analisi comparata delle leggi sulla cittadinanza.

Un breve cenno alla riforma naufragata ora serve. Quella sì, si basava su un’analisi comparata delle legislazioni europee, che prevedono, con poche eccezioni, la possibilità per i figli di immigrati di diventare cittadini prima dei 18 anni. E in Europa, a differenza di quanto accade negli stati di antica immigrazione come gli Usa, essere nato sul territorio non basta. Il progetto italiano richiedeva almeno un genitore titolare di un permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo, permesso che dal 2007 ha sostituito la carta di soggiorno. Per ottenerlo servono almeno 5 anni di residenza regolare, quindi sia avere percepito un reddito sufficiente a rinnovare ogni anno il permesso di soggiorno ordinario, sia risiedere in un’abitazione decorosa. Il pacchetto sicurezza del 2009 (Legge n. 94) ha aggiunto il requisito della conoscenza dell’italiano. Ovviamente dal permesso Ue sono esclusi gli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, non lo può avere chi è sottoposto a misure di prevenzione o chi ha subito condanne, anche non definitive, per delitti per i quali si prevede l’arresto obbligatorio in flagranza o, limitatamente ai delitti non colposi, l’arresto facoltativo. La riforma è, insomma, destinata ai figli di quegli immigrati per bene che, almeno a parole, la quasi totalità della nostra classe politica, destra inclusa, dice di accettare, ma non accetta.

Lo ius soli è una pedina utilizzata dalla destra per capitalizzare consensi su una generale ostilità all’immigrazione. Un vistoso esempio lo offre Giorgia Meloni che, il 7 dicembre 2017, quando era ormai evidente il decesso della riforma, ha presentato al presidente Mattarella le 137.000 firme raccolte per fermarla.

D’altra parte, anche i benevoli fautori dello ius soli ne fanno un uso strategico. Per il Pd, Renzi ha sempre definito la riforma della cittadinanza “una questione di civiltà”. In campagna elettorale il suo rinnovato fervore si può interpretare anche come una contromossa rispetto all’uso anti Pd che ne fanno Liberi e Uguali. Dovrebbe contribuire a tamponare trasfusioni di voti a sinistra. Se così fosse, la scissione e i travasi dipenderebbero da idiosincrasie eminentemente politiche e non eminentemente personali.

Messi da parte gli usi strategici, se guardiamo all’impatto reale della riforma abortita, noi strenui paladini dello “ius soli temperato” potremmo forse moderare il lutto. Anche senza una nuova legge, in base alla normativa vigente (n. 91/1992), i minori stranieri ottengono la cittadinanza alla grande. Solo nel 2016 i nuovi italiani sono stati più di 200.000, di costoro quasi il 40% aveva meno di 19 anni. La legge del 1992 è tra le più severe in Europa: ai non comunitari servono 10 anni di residenza regolare, più altri anni di lentezze burocratiche per diventare italiani. Ma la nostra non è più un’immigrazione recente: i genitori ottengono la cittadinanza e la passano ai figli.

Infine, senza essere cittadini i minori stranieri possono studiare ed essere curati. Con l’introduzione del permesso di soggiorno Ue, i figli dei titolari degli immigrati, seppure con alcune restrizioni, possono andare a studiare e a lavorare in un altro Paese dell’Unione. I loro diritti sono insomma equiparabili a quelli dei minori italiani.

La riforma, debole nel suo impatto materiale, ha tuttavia un forte contenuto simbolico: significa accettare pubblicamente gli immigrati che vivono e lavorano in Italia, i loro figli. Proprio il valore simbolico della riforma ha dato e sta dando molto, non ai minori stranieri che ne escono umiliati, ma alla classe politica italiana, che la utilizza continuamente come duttile strumento nei suoi giochi strategici.

 

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