Esplorare il significato giuridico della nozione di “popolo” richiede una premessa. Nell’ambito del diritto pubblico e costituzionale, il popolo rappresenta il fondamento concettuale di due nozioni cardine: quella di “cittadinanza” e quella di “Costituzione”. Comprenderne il significato implica dunque attraversare tre momenti fondamentali della sua identificazione, ciascuno corrispondente a una diversa modalità di riflessione giuridica: il popolo come elemento essenziale dello Stato, il popolo come soggetto definito dalla cittadinanza e il popolo come attore che anima e sostiene le garanzie costituzionali. Questo contributo si propone di indagare il significato giuridico del popolo, difendendo al contempo l’idea del suo intrinseco dinamismo.

Dal punto di vista giuridico, la nozione di popolo si articola generalmente in due prospettive: a) come componente della triade territorio-popolo-sovranità, oggetto della teoria generale del diritto che identifica le condizioni necessarie per l’esistenza dello Stato; b) come entità concretamente individuata attraverso la qualificazione giuridica dello status di cittadino, ambito di studio del diritto pubblico e costituzionale. Queste due prospettive, tuttavia, non sono completamente scindibili, poiché il modo in cui concepiamo il popolo come elemento della teoria generale dello Stato influisce inevitabilmente sulla definizione giuridica dei soggetti che lo compongono (cfr. A. Mattioni e F. Fardella, Teoria generale dello Stato e della Costituzione. Un’antologia ragionata, Giappichelli, 2002, p. 104).

La cultura giuridica europea è consapevole della complessità di questo intreccio – il popolo come fondamento dello Stato e il popolo come entità concretamente identificata – avendo sperimentato storicamente la distinzione, offerta da Friedrich Meinecke, tra due concezioni di nazione. Da un lato, la nazione culturale, fondata su un patrimonio culturale comune conquistato con uno sforzo condiviso, e dall’altro la nazione territoriale, in cui il legame unitario si radica in una storia comune e viene consolidato nel tempo attraverso le istituzioni politiche.

Entrambi i concetti si prestano a interpretazioni diversificate, con rilevanti implicazioni sull’identificazione del popolo. Nell’ambito teorico della nazione culturale, il popolo, in una distorsione di matrice nazionalista, può essere ridotto a un’idea di “eguaglianza di stirpe” in senso antipluralista (C. Schmitt), arrivando persino a costituire il fondamento di ricostruzioni razziste. Queste visioni hanno spesso attinto al concetto di radicamento al suolo, ovvero alla dimensione normativa del rapporto tra l’uomo e la terra.

La nazione culturale può tuttavia assumere connotazioni diverse, rappresentando un destino comune, il risultato di un processo che riflette l’immutabilità di tratti socio-culturali resistenti al trascorrere del tempo. In questa prospettiva, il popolo subisce trasformazioni, ma non si configura come protagonista di un processo aperto di identificazione e reinvenzione riflessiva. Si pensi, ad esempio, al passaggio tratto da Memoria della speranza (brano tratto da Mattioni e Fardella, cit.):

“La Francia viene dalla notte dei tempi. Essa vive. La voce dei secoli la chiama. Ma resta sé stessa nel fluire dei tempi… vi abitano popoli che affrontano, nel corso della Storia, le prove più diverse, ma che la natura delle cose, messa a profitto dalla politica, impasta incessantemente in una sola nazione. Essa ha abbracciato numerose generazioni e diverse ne comprende attualmente. Molte altre ne partorirà, ma grazie alla geografia che le è propria, al genio delle razze che la compongono, ai Paesi che la circondano, essa riveste un carattere costante per cui i francesi di ogni epoca dipendono dai loro padri e si sentono impegnati per i loro discendenti”.

Questo brano rappresenta il popolo attraverso il prisma della tradizione. Nonostante l’indubbia forza evocativa e poetica di questa visione, il concetto espresso da De Gaulle risulta problematico, poiché suggerisce una continuità rigida, priva di apertura a una rinnovata riflessione identitaria.

Innanzitutto, la linearità del legame tra nazione (intesa come origine culturale di un popolo) e territorio si rivela assai meno reale e intuitiva di quanto possa apparire a prima vista. Da un lato, vi sono nazioni disperse su territori diversi; dall’altro, vi sono casi in cui lo Stato si configura come uno strumento contingente che “crea” – nel senso di generare – una nazione. Questo è vero, ad esempio, per la Svizzera. Lo è, in una certa misura, anche per gli Stati Uniti, dove l’unità politica, espressa nel celebre We, the people, culmina con l’adozione della Costituzione.

Questi esempi raccontano qualcosa di fondamentale: il popolo può essere il risultato di un’unità politica, e dunque non necessariamente un dato pre-esistente, concepito come un fatto naturale da cui deriverebbe, senza interruzioni o fratture identitarie, la costruzione dello Stato. Al contrario, il popolo può rappresentare il punto di arrivo, piuttosto che il presupposto naturalistico, dell’unità politica.

Il concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione culturale, percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze

Il declino degli Stati-nazione dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita del progetto europeo sembravano aver svuotato il concetto di popolo delle sue connotazioni più strettamente genealogiche, rendendo interpretazioni di questo tipo antistoriche, ovvero incapaci di cogliere lo spirito dei tempi. Eppure, il concetto di popolo come espressione concreta e reale di una nazione culturale, percepita come parzialmente immutabile, è utile nelle riflessioni sul diritto all’autodeterminazione dei popoli e nella tutela delle minoranze.

Esiste, dunque, una perenne attualità del concetto di popolo, accompagnata da un’ambiguità costante nel suo utilizzo, sia nella retorica politica sia nel dibattito pubblico. Risulta perciò cruciale indagare questa ambiguità, in particolare per comprendere come il concetto di “popolo” si relazioni con quello di “costituzione”.

Nella Costituzione italiana, la nozione di popolo ricorre in diverse disposizioni: nell’articolo 1 (“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”); nell’articolo 11 (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…”); nell’articolo 71, c. 2 (“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi”); negli articoli 75 e 138 (referendum popolare); nell’articoli 101, c. 1 (“La giustizia è amministrata nel nome del popolo”); nell’articolo 102, c. 3 (“La legge regola i casi e le forme di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”).

In tutti questi articoli, il popolo è concepito sia come riflesso di un’unità politica, sia come elemento dinamico che anima la democrazia e genera sviluppi costituzionali spesso imprevedibili. In questa prospettiva, il popolo è al tempo stesso sovrano e interlocutore perenne dei poteri sovrani.

Tuttavia, questa lettura del popolo come fondamento dell’unità politica garantita dall’esistenza della Costituzione convive con un altro significato storico: il popolo come la parte economicamente e politicamente svantaggiata della comunità politica. Questo secondo senso non deve essere interpretato necessariamente in termini deteriori. Alessandra Facchi osserva, per esempio, che nella Costituzione italiana vi è una norma, l’articolo 47 (sulla tutela del risparmio), in cui emerge un aspetto del popolo concepito come componente caratterizzata da inferiorità economica e politica (A. Facchi, Popolo, in A. Barbera (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, 2007).

Sebbene un testo costituzionale possa impiegare questo senso di popolo in chiave di tutela della sua posizione sociale, il concetto si presta talvolta a distorsioni. L’idea del popolo come soggetto in posizione di svantaggio economico, politico e, più recentemente, culturale – marginalizzato anche se demograficamente dominante – emerge frequentemente nella retorica politica. È il significato del popolo che predomina nel discorso populista, dove si contrappone un “vero popolo” a un’entità elitista, distante e non partecipe della comunità popolare, perché dotata di appartenenze più moderne e cosmopolite.

Nel contesto attuale, il concetto di popolo che si affaccia – talvolta in modo aggressivo – sulla scena politica è quello di un soggetto che rivendica una sovranità escludente. Una sovranità che, prima di tutto, traccia confini rigidi tra “amici” e “nemici”, definendo chi è dentro e chi è fuori dai confini territoriali. Questa logica si riflette chiaramente nelle politiche sull’immigrazione e sulla cittadinanza. La definizione dei criteri per la cittadinanza risponde proprio a questa visione, restringendo la nozione di popolo a un gruppo selezionato, spesso concepito come svantaggiato, che diviene il “vero” destinatario della sovranità enunciata nell’articolo 1 Cost. In questa prospettiva, la sovranità popolare viene rappresentata come un bene indisponibile, che richiede protezione assoluta contro ogni trasformazione. La politica, cioè, dipinge il popolo come un’entità da proteggere a ogni costo, opponendosi a qualsiasi apertura al diritto internazionale o ampliamento della cittadinanza. La cessione di sovranità, l’accoglienza di diritti cosmopoliti e l’estensione delle maglie della cittadinanza vengono interpretati come tradimenti.

L’esclusione dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un ritorno a una concezione antica di costituzione, che si limita a unire politicamente una porzione selezionata della comunità

Un esempio significativo di questa dinamica è il dibattito sulla riforma della cittadinanza in Italia, in particolare sulla proposta dello ius scholae (o, in alcune versioni, dello ius culturae), che pone il tema del radicamento sul territorio. Su questo punto, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 222/2013 in tema di diritti sociali dei non cittadini, offre indicazioni importanti. La Consulta spiega che il radicamento non rileva solo in senso negativo, per giustificare il diniego di una prestazione sociale, ma anche in senso positivo, per fondare il riconoscimento di diritti, anche in assenza dei requisiti per il soggiorno di lungo periodo, quando un individuo ha stabilito sul territorio legami di vita, lavoro, affetto o famiglia.

Questo dibattito evidenzia l’attualità di un’intuizione fondamentale di Aristotele, contenuta nel Libro IV della Politica: le forme costituzionali sono il risultato della partecipazione delle classi sociali all’attività politica. Limitare la cittadinanza, dunque, diventa uno strumento per preservare un’idea ristretta di popolo, nella quale il radicamento territoriale non è sufficiente.

L’esclusione dalla cittadinanza di chi potrebbe culturalmente appartenere al popolo segna un ritorno a una concezione antica di costituzione, che si limita a unire politicamente una porzione selezionata della comunità. Questo approccio, però, contrasta con i principi espressi negli articoli 1, 3, 4 e 10 della Costituzione, secondo cui la partecipazione attiva costruisce la cittadinanza e, quindi, il popolo.

Nel costituzionalismo moderno, il “popolo” è necessariamente un concetto dinamico: è un soggetto politico che interagisce con il diritto costituzionale, il quale ne disciplina le forme senza limitarne la forza vitale e motrice.

 

[Questo testo rappresenta una sintesi dell’intervento presentato al convegno “Il popolo del futuro”, organizzato all’Università di Trento dall’International Migration Laboratory, il 7 e 8 novembre 2024.]