Può essere definita popolazione l’insieme generico delle persone che vivono in un determinato territorio; un popolo è tale, invece, se opera per tramandare di generazione in generazione – con gli adattamenti che il corso della storia richiede – la propria cultura, fatta di norme, lingua, valori, tradizioni. Popolo e popolazione possono anche identificarsi, al termine dell’ideale processo di transizione. La mobilità è una prerogativa umana, iscritta nella nostra natura biologica e sociale; è una prerogativa che ha sostenuto la dispersione dell’umanità nel pianeta, e la coesistenza e compresenza (oltreché la conflittualità) di gruppi e collettività con storie ed esperienze diverse.

Qualche memento storico sarà utile. Nei decenni precedenti la Grande guerra, si rafforzò in varie forme la spinta nazionalista, si diffuse l’identificazione tra Stato e nazione, che nelle forme più radicali implicò la sovrapposizione tra nazione e gruppo etnico predominante. Questi processi determinarono la disgregazione degli imperi austro-ungarico e ottomano – sancita dai trattati di pace – e la nascita di nuove entità statali nella parte europea dell’impero russo. Una disgregazione che è stata interpretata come conseguenza della transizione dall’impero multietnico allo Stato nazionale, avvenuta in un’era di crescente nazionalismo.

La Conferenza di Parigi e i trattati di pace successivi modificarono la carta geografica dell’Europa centro-orientale nel tentativo di ridisegnare i confini degli Stati lungo i discrimini etnici. Ma la diaspora germanica, e le migrazioni di altri popoli, rendevano questa operazione di “ritaglio e ricomposizione” molto approssimativa. Inoltre, il principio di autodeterminazione, nella prospettiva delle potenze vincitrici, confliggeva col proposito di indebolire la Germania e il suo potere di attrazione verso le minoranze tedesche della secolare diaspora. In questo contesto, gli scambi di popolazione e le migrazioni più o meno forzate del dopoguerra aprirono la strada a operazioni di pulizia etnica. E andando oltre verso il baratro, al genocidio.

Ma i conflitti, che apparvero assopiti dopo il trauma della guerra mondiale e posti sotto controllo dal mondo bipolare nel mezzo secolo successivo, sono riemersi con violenza negli ultimi decenni. In prevalenza, si sono riaccesi lungo confini etnico-culturali-religiosi, a testimonianza che il mondo, nonostante appaia sempre più connesso e globalizzato, è percorso da linee divisorie, spesso antiche di secoli, lungo le quali si producono profonde fratture, in mancanza di robuste istituzioni nazionali e internazionali che le tengano a bada. Mi rendo conto che parlare di “identità etnico-religiose” richiederebbe approfondimenti che non sono in grado di fare. Tuttavia, restando in Europa, non può sfuggire che hanno avuto (e hanno) matrice etnico-cultural-religiosa i conflitti tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, tra baschi e non baschi in Spagna; tra croati cattolici, serbi ortodossi e bosniaci musulmani, nelle guerre di Iugoslavia, tra ceceni e russi nelle due guerre di Cecenia, tra albanesi e serbi nel Kosovo. Altrove, la robustezza delle istituzioni ha evitato il deteriorarsi di contrasti e conflitti (Italia e Austria per Sud Tirolo-Alto Adige; valloni e fiamminghi; autonomisti corsi e Francia metropolitana, catalani indipendentisti e centralisti in Spagna). Fuori Europa, le linee di frattura e di discrimine etnico-religioso sono profonde e molteplici: un lungo catalogo di conflitti generalmente attribuibili a differenze cultural-religiose, che tuttavia sembrano fattori fondamentali della fragilità del mondo.

I contrasti tra gruppi hanno spesso radici remote e l’azione del tempo non sempre riesce a moderarli. Le popolazioni possono non diventare popolo, anche se conviventi nello stesso contenitore geografico e politico

I contrasti tra gruppi hanno spesso radici remote e l’azione del tempo – verrebbe da dire, banalmente, della storia – non sempre riesce a moderarli. Le popolazioni possono non diventare popolo, anche se conviventi nello stesso contenitore geografico e politico. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se nel nostro tempo molte collettività di immigrati mantengono a lungo forti caratteristiche distintive, che li separano dalle collettività ospitanti, e che da queste ultime siano percepite lontane ed estranee. È quindi compito di chi studia questi temi comprendere i meccanismi che favoriscono, o contrastano, la transizione da popolazione a popolo.

Ogni anno, 5 o 6 milioni di persone, per lo più provenienti dal Sud globale, entrano in un Paese ricco del Nord globale, con l’intenzione, quando non di piantarci le radici, almeno di restarci a lungo. Nonostante le politiche restrittive messe in atto da un numero crescente di Paesi, è presumibile che i flussi migratori siano destinati a crescere ancora. Sotto il profilo dei contatti umani il mondo è sempre più integrato: quasi tutti i terrestri sono legati virtualmente dai social media; la mobilità internazionale di breve periodo si intensifica per una pluralità di fattori – economici, affettivi e di parentela, di studio e ricerca, di cooperazione, di viaggio e turismo e, purtroppo, di sicurezza e militari. Un pianeta avviluppato da una rete sempre più fitta di rapporti umani – virtuali e fisici – è destinato, nel lungo periodo, a generare ulteriori flussi migratori in buona parte di natura permanente. E a imboccare i difficili percorsi destinati a renderli popolo.

Un pianeta avviluppato da una rete sempre più fitta di rapporti umani – virtuali e fisici – è destinato, nel lungo periodo, a generare ulteriori flussi migratori in buona parte di natura permanente

Quali fattori facilitano, e quali ostacolano, la transizione da popolazione a popolo? Dal mio ristretto angolo disciplinare, si possono individuare alcuni aspetti delle dinamiche migratorie rilevanti per comprendere il processo di transizione da popolazioni a popolo, con il pregio di consentire una “metrica” dei fenomeni. Premetto che le modalità demografiche hanno, in prevalenza, una funzione accessoria nel determinare la “distanza”, o il grado di accettazione, dei gruppi immigrati dalla società ospitante. Semplificando una materia assai intricata, mi limito perciò a proporre una prima elementare classificazione.

Dimensione dei flussi e degli stock di migranti, in funzione delle dimensioni della popolazione ospitante. In passato ci si è spesso esercitati a individuare presunte soglie oltre le quali le dimensioni di flussi e stock di migranti ostacolano i processi di integrazione, o la “tollerabilità” dell’immigrazione. È però evidente che queste soglie non sono definibili senza tener conto di una pluralità di variabilissimi fattori. Un esempio: storicamente le migrazioni “internazionali ma intra-continentali” nell’America iberica erano relativamente libere e consentite, date le affinità culturali, religiose, e linguistiche dei vari Paesi. Ma quando sono divenute fenomeni di massa – come l’emigrazione dei venezuelani verso Colombia, Ecuador, Perù e Brasile – sono emerse ostilità e intolleranze, e si sono poste in atto rapidamente freni e barriere.

Il tempo, o la velocità dell’immigrazione. Per un determinato gruppo di migranti, è presumibile che la gradualità dell’immigrazione sia un fattore che favorisce la coesione con la popolazione ospitante, rispetto a una immigrazione temporalmente concentrata. C’è un fattore di mutua conoscenza e di accettazione reciproca che agisce meglio se diluito nella sua durata.

Struttura demografica, in particolar modo la struttura familiare e per sesso/genere, che generalmente influenza le modalità di interazione, integrazione e convivenza. L'immigrazione per gruppi familiari può rendere più problematica l’apertura alla società ospitante, o comunque rendere possibile una “chiusura” difensivo-identitaria; l’immigrazione con predominanza di persone sole può, invece, rendere indispensabile l’apertura, le relazioni interpersonali, le unioni miste.

I modelli familiari, che hanno radici storiche lontane o lontanissime e che sono modificabili con lentezza; i criteri di scelta del partner; il grado di subordinazione della donna; il suo eventuale isolamento, all’interno della sfera familiare.

Le modalità d’insediamento, diffuso sul territorio oppure concentrato; urbano o rurale; la segregazione abitativa; la distanza dal paese di origine e l’intensità e frequenza delle relazioni con esso.

Le modalità sopra tratteggiate non sono quelle che più ostacolano la transizione da popolazione a popolo. Altri fattori agiscono nel profondo nel determinare la trasformazione in popolo di un gruppo “esterno”, ma che si trova fisicamente all’interno di un Paese. Tento, di seguito, una sommaria esemplificazione.

Fattori giuridici: e cioè le normative che regolano la trasformazione del migrante da ospite (legale o illegale) a cittadino. Ancora nel secolo scorso, in varie parti del mondo (in America, ad esempio, a Nord come a Sud), la mera dimora in un territorio veniva, de facto, considerata legale, e requisito di accesso alla cittadinanza. Oggi il cammino che deve compiere il migrante – anche quello regolarmente arrivato – per conseguire la cittadinanza è assai lungo e disseminato di passaggi più o meno stretti e più o meno selettivi (conoscenze, professione, età, condizione familiare...).

Fattori legati allo sviluppo, le cui oscillazioni si ripercuotono nel grado di accettazione del migrante da parte della popolazione ospitante. I barometri sociali mostrano una forte correlazione tra andamento economico e gradimento degli immigrati. Ma assai più rilevante è la dinamica della società nella quale i migranti si inseriscono. Società in forte sviluppo metabolizzano velocemente i nuovi arrivi: gli italiani si sono trasformati rapidamente in argentini, brasiliani, canadesi, statunitensi o australiani. Società stagnanti o in declino hanno processi metabolici più lenti.

Fattori culturali, valoriali e sociali, quelli che non sono modificabili, o che sono modificabili solo con molta lentezza e che marcano la “distanza” tra gruppi, quali la religione, la lingua – forte marcatore di differenza nella prima generazione e a volte anche nella seconda; alcuni aspetti dell’organizzazione familiare, ad esempio la subordinazione delle donne. Andrebbe qui fatta una nota a parte per quei gruppi fortemente coesi e determinati a mantenere la propria identità, e la propria differenza, facendosi impermeabili alle modificazioni indotte dall’ambiente esterno: come ad esempio furono (e in parte ancora sono) alcune collettività religiose cristiane riformate (Utteriti, Mennoniti, Amish), o gli ebrei ortodossi, Haredim. Sono però gruppi molto piccoli.

Fattori etnico-fisici-antropologici (non giriamo intorno alle parole! Il colore della pelle, in primis) che individuano, a prima vista, l’appartenenza a un gruppo distinto; evidenti marcatori della differenza, caricati poi del peso di radicati stereotipi, quasi sempre discriminatori. Questi possono essere superati: negli Stati Uniti, per esempio, nel 1967 la Corte Suprema deliberò, nel caso Loving v. Virginia, che il matrimonio interrazziale dovesse essere legale in tutti gli Stati. Questi matrimoni rappresentavano allora appena il 3% del totale, contro quasi il 20% di oggi.

Fattori storici, che radicalizzano le differenze e le distanze. Gli effetti dei conflitti e delle guerre della prima metà del secolo scorso sono ancora evidenti in Europa e in Asia, in special modo quando ci sono stati eserciti occupanti (boots on the ground): greci e turchi; russi e tedeschi; giapponesi e coreani – e, in genere, tra popoli vittime dei genocidi o di violenze collettive, e popoli cui appartengono i perpetratori degli stessi. I traumi di una generazione, interiorizzati e incisi nella memoria si trasmettono alle generazioni successive.

Il fattore “spossessamento”, effettivo o temuto, genera diffidenza e ostilità. L’idea, cioè, che il popolo immigrato faccia proprie risorse spettanti agli autoctoni. Gli esempi abbondano, sia antichi, sia contemporanei. L’assegnazione di terre ai veterani, considerate proprie dagli autoctoni, generò conflitti e odi profondi all’epoca delle guerre civili della Roma repubblicana. Così è (forse) in Palestina, tra arabi espulsi dalle loro terre e dalle loro case, ed ebrei immigrati. Oggi è il temuto spossessamento di diritti sociali acquisiti (la casa e addirittura il posto nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi pubblici), i posti nelle scuole, negli ospedali, nei mezzi pubblici) che è generatore di distanze, estraneità, competizione verso i gruppi immigrati.

Disseminati sul difficile cammino che conduce una collettività dalla condizione di aggregato di persone co-residenti – una popolazione – a popolo ci sono ostacoli di ogni tipo e di ogni grado di difficoltà, che si mescolano, si sovrappongono o si annullano e che disordinatamente sono stati ricordati. Su molti di questi è difficile, se non impossibile, agire. Su altri, ragionevoli normative, sagge politiche sociali, un equilibrato sviluppo, possono ottenere buoni risultati. Ma su tutto dovrebbe prevalere un’azione politica condivisa che susciti – nel gruppo immigrato – un sentimento laico di partecipazione, titolarità, appartenenza al Paese nel quale vivono. Solo per questa via, con il sostegno di solide istituzioni, una popolazione gradualmente diventa popolo.

 

[Questo testo rappresenta una sintesi dell’intervento presentato al convegno “Il popolo del futuro”, organizzato all’Università di Trento dall’International Migration Laboratory, il 7 e 8 novembre 2024.]