C’è una pedagogia negli interventi dei presidenti della Repubblica: ciascuno ha ovviamente avuto il suo stile e ognuno ha risposto agli stimoli, ma potremmo anche dire alle sfide, che si è trovato davanti. C’è tuttavia un dato da tenere presente e che troppo spesso viene sottovalutato: l’inquilino del Colle parla come istituzione, non come uomo politico, non esprime le sue opinioni personali su questo e su quello, ma cerca di comunicare una lettura degli eventi e dei problemi inquadrandoli nel contesto delle dinamiche che coinvolgono il nostro Paese.

Mattarella è assai consapevole del dovere particolare che pesa su di lui. L’ha ricordato lui stesso nel suo discorso alle alte cariche dello Stato il 17 dicembre dello scorso anno.

“Va sempre rammentato un punto fondamentale: il rispetto delle istituzioni nei confronti di chi ne ricopre il ruolo. Così come coloro che rivestono responsabilità istituzionali, a cominciare dal presidente della Repubblica, sono tenuti a esercitarle sapendo che le istituzioni sono di tutti. Che il servizio che si svolge è a garanzia della dignità di ognuno, a prescindere dall’appartenenza politica. […] Quel senso del dovere che richiede a tutti coloro che operano in ogni istituzione, di rispettare i limiti del proprio ruolo. Senza invasioni di campo, senza sovrapposizioni, senza contrapposizioni. La Repubblica vive di questo ordine. Ha bisogno della fiducia delle persone che devono poter vedere, nei comportamenti e negli atti di chi ha responsabilità, armonia tra le istituzioni”.

Sono parole molto significative perché si inquadrano nel messaggio complessivo che il presidente mi sembra abbia voluto indirizzare al Paese in un momento particolarmente delicato della nostra vita, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale. Altrettanto questi interventi hanno sempre una duplice valenza: generale, ma anche calibrata sull’uditorio a cui si rivolgono. Eppure andrebbe fatto uno sforzo per cogliere come pur nelle diverse calibrature sia presente un messaggio unico.

Parlando alla generalità dei cittadini nel tradizionale messaggio del 31 dicembre Mattarella aveva esordito così:

“Stiamo vivendo come ogni fine anno ore di attesa per un tempo nuovo che viene e che speriamo migliore. Ore in cui cerchiamo la serenità rinsaldando i nostri rapporti. Nelle nostre comunità, nelle famiglie, nelle amicizie. Facciamo i nostri auguri e ne riceviamo. Non è soltanto un rito, è la dimostrazione della nostra natura più autentica, quella che ci chiama alla relazione con gli altri. Lo facciamo, dobbiamo farlo tanto più in quanto viviamo momenti difficili”.

È naturalmente scontato il riferimento alla durezza dei tempi che viviamo. Ciò che scontato non è affatto, se si legge il messaggio in profondità, è la sottolineatura della necessità di rispondere a questa fase complessa, per alcuni aspetti tragica, con il richiamo al carattere comunitario e relazionale che fonda le relazioni nella polis (uso scientemente questo termine per tenere insieme il versante politico con quello civile).

Nel suo discorso del 17 dicembre Mattarella aveva già affrontato questo tema in termini più che espliciti.

“Si registra ovunque un fenomeno di evidente, progressiva polarizzazione che tocca tanti aspetti della nostra convivenza. Appare sempre più difficile preservare lo spazio del dialogo e della mediazione all’interno di società che sembrano oggetto di forze centrifughe divaricanti, con una pericolosa riduzione delle occasioni di dialogo, di collaborazione, di condivisione. Si tratta di una dinamica che non riguarda soltanto la politica ma la precede e va molto oltre. Tocca ambiti sociali, economici, culturali, persino etici. Il pluralismo delle idee, l’articolazione di diverse opinioni rappresentano l’anima di una democrazia. Questo è il principio cardine delle democrazie delle società occidentali. Ma sempre più spesso vi appare la strada di una radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico”.

Mattarella ha presentato questo tema anche nel suo discorso di fine anno.

“Cosa significa concretamente coltivare fiducia in un tempo segnato, oltre che dalle guerre, da squilibri, da conflitti? Vi è bisogno di riorientare la convivenza, il modo di vivere insieme. In questo periodo sembra che il mondo sia sottoposto a una allarmante forza centrifuga, capace di dividere, di allontanare, di radicalizzare le contrapposizioni. Sono lacerate le pubbliche opinioni. Faglie profonde attraversano le nostre società. La realtà che viviamo ci presenta contraddizioni che generano smarrimento, sgomento, talvolta senso di impotenza”.

L’insistenza del presidente sulla necessità di tenere insieme il tessuto connettivo della nazione non può essere liquidata come una retorica istituzionale in qualche modo obbligata. Lo testimonia la collocazione di questa riflessione nella drammaticità del contesto internazionale che ha richiamato sia nel discorso del 17 dicembre sia in quelli precedenti al Corpo diplomatico e agli ambasciatori, sia senza giri di parole nel suo discorso di fine anno.

Alle alte cariche aveva detto:

“Dopo l’aggressione russa all’Ucraina nuovi fronti di crisi sono esplosi, in una concatenazione che allarga il conflitto dall’Europa al Medio Oriente, moltiplicando rapidamente gli scenari di guerra. Sarebbe miope non vedere quel che lega in un’unica trama questa tragica condizione. Le nostre nuove generazioni si confrontano con stupore e disorientamento con le immagini e le parole della guerra. Occorre una approfondita riflessione sui danni che questa deriva emotiva può produrre nel lungo periodo sulle donne e sugli uomini di domani, sui loro sentimenti, sulla loro percezione della realtà e sul modo di organizzare la convivenza”.

Nel discorso del 31 dicembre così si è espresso aggiungendo una nota positiva, per non chiudersi in una sterile deprecazione di tempi.

“La fine dell’anno è anche tempo di bilancio. Ho incontrato valori e comportamenti positivi e incoraggianti nel volto, nei gesti, nelle testimonianze di tanti nostri concittadini. Li ho incontrati nel coraggio di chi ha saputo trasformare il suo dolore, causato da un evento della vita, in una missione per gli altri. Ho fatto riferimento ad alcuni esempi di persone che hanno scelto di operare per il bene comune perché è proprio questa trama di sentimenti, di valori, di tensione ideale quel che tiene assieme le nostre comunità e traduce in realtà quella speranza collettiva che insieme vogliamo costruire. È questa medesima trama che ci consentirà di evitare quelle divaricazioni che lacerano le nostre società producendo un deserto di relazioni, un mondo abitato da tante solitudini”.

Sempre il 17 dicembre Mattarella aveva spinto a fondo la sua analisi toccando un punto nevralgico della crisi della nostra sfera politica:

“che si faccia spazio la tentazione di un progressivo svuotamento del potere pubblico. Fino ad intaccare la stessa idea di stato per come l’abbiamo codificata e conosciuta nei secoli”.

Il presidente ha guardato con preoccupazione ad un fenomeno che preoccupa tutti gli osservatori responsabili della realtà politica.

“Si insinua nelle nostre opinioni pubbliche il dubbio che il potere democratico sia debole, inefficiente, lento, inadeguato a governare realtà in veloce evoluzione. O addirittura sia un fattore penalizzante nella competizione con sistemi non democratici. È singolare e contro la realtà che si trascuri come nelle democrazie le decisioni assunte, sulla base del consenso liberamente espresso dai cittadini, siano ben più salde e affidabili. Bisogna amare la democrazia. Evitando che conflitti e radicalizzazioni, artificialmente alimentate da chi pensa in tal modo di ottenere spazio e visibilità, riescano a produrre una desertificazione del tessuto civile che lascerebbe campo libero ad avventure di ogni tipo”.

Non è un passaggio che, dispiace dirlo, sia stato oggetto di particolare attenzione. Eppure nel messaggio di fine anno l’aveva replicato sia pure con altre parole.

“L’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani ha scelto, come parola dell’anno, ‘rispetto’. Il rispetto verso gli altri rappresenta il primo passo per una società più accogliente, più rassicurante, più capace di umanità. Il primo passo sulla strada per il dialogo, la collaborazione, la solidarietà, elementi su cui poggia la nostra civiltà. Rispetto della vita, della sicurezza di chi lavora”.

Si tratta di prospettive che sono state ampiamente illustrate da Mattarella nel suo discorso:

“la nostra umanità si esprime anzitutto in relazione. Nel vivere insieme agli altri. Nel condividere. Nel fare comunità. Le nostre democrazie hanno bisogno di questa umanità, di queste relazioni, di rinnovata partecipazione che torni ad animare e a dare valore allo spazio pubblico, alla dimensione comunitaria”.

Di nuovo non si tratta di quello che qualcuno vorrebbe definire un buonismo di maniera, perché l’inquilino del Colle ha messo il dito nella piaga parlando di due aspetti su cui il dibattito pubblico si affanna: la stabilità e la convergenza nella ricerca delle vie per affrontare i grandi problemi.

Sul primo punto ha detto:

“Sovente parliamo della stabilità come di un fattore determinante del patrimonio di credibilità e di buona reputazione di un Paese. E come si è detto la stabilità è alimentata da istituzioni efficienti. Da istituzioni in grado di assumere decisioni tempestive. Dal consenso dei cittadini. Da una società civile che sa impegnarsi e crescere, perché sa che la coesione si nutre di lavoro ed è incoraggiante registrare segnali positivi nell’andamento dell’occupazione. Ma ci sono, prima ancora, fattori che non dobbiamo sottovalutare: valori comuni e condivisi, cultura, sentimenti popolari che ci fanno riconoscere come un unico popolo, legato da un comune destino”.

Sul secondo, che strettamente si connette a questa chiusa, così si è espresso.

“Vuol dire anche riconoscere che vi sono interessi nazionali che richiedono la massima convergenza. Ad esempio il rispetto dei trattati e delle alleanze internazionali, la difesa e la sicurezza dei nostri concittadini e delle infrastrutture strategiche, la salvaguardia dell’ambiente e la messa in sicurezza dei nostri territori. Non possiamo dividerci su questi obiettivi, che sono inevitabilmente di lungo periodo e vanno dunque perseguiti con un impegno che va oltre le maggioranze e le opposizioni di turno”.

Sembra a me che questo stesso messaggio sia inglobato in un passaggio del discorso di fine anno che è stato anche oggetto di qualche interpretazione strumentale.

“Siamo tutti chiamati ad agire, rifuggendo da egoismo, rassegnazione o indifferenza. Nella quotidiana esperienza di tanti nostri concittadini si manifesta un sentimento vivo, sempre attuale, dell’idea di Patria. [...] Patriottismo è quello dei medici dei pronto soccorso, che svolgono il loro servizio in condizioni difficili e talvolta rischiose. Quello dei nostri insegnanti che si dedicano con passione alla formazione dei giovani. Di chi fa impresa con responsabilità sociale e attenzione alla sicurezza. Di chi lavora con professionalità e coscienza. Di chi studia e si prepara alle responsabilità che avrà presto. Di chi si impegna nel volontariato. Degli anziani che assicurano sostegno alle loro famiglie. È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”.

Ci sono tanti altri passaggi nei recenti discorsi di Mattarella che meritano attenzione e condivisione, ma mi sembra che quanto si è cercato di estrarre rappresenti un punto importante per affrontare il tornante del nuovo anno: senz’altro lo è per la nostra rivista che rivendica una storia nel lavoro di costruzione di una comunità che sia al tempo stesso di cultura e di politica.