Il Miur sta dando corso alle norme previste dalla Legge di Stabilità 2017, relative a un finanziamento per complessivi 1,3 miliardi di euro (271 milioni all’anno per cinque anni) di 180 dipartimenti universitari «eccellenti». Si tratta di una decisione preoccupante, che produrrà effetti negativi strutturali, di lungo periodo, sul sistema universitario italiano. Ma che cosa c’è di male nel «premiare l’eccellenza»? Vediamo.
Primo. L’individuazione dei dipartimenti «eccellenti» è basata sugli esiti della recente Valutazione della qualità della ricerca (Vqr) realizzata dall’Anvur. Tale esercizio è stato oggetto di vaste critiche nell’ambito della comunità scientifica italiana, sia di taglio metodologico sia relativamente alle scelte di politica della ricerca in esso implicite, tali da sconsigliarne l’utilizzo come criterio per la ripartizione dei finanziamenti ordinari. Scelta che caratterizza l’Italia come un unicum nel panorama internazionale (con qualche somiglianza con la situazione inglese). Una volta acquisiti i dati della Vqr, l’Anvur ha provveduto al calcolo di un indicatore dipartimentale (Ispd); tale indicatore è stato definito nei suoi dettagli rilevanti dopo aver avuto disponibili tutti i dati, potendo teoricamente simulare l’impatto, dipartimento per dipartimento, di formulazioni alternative. La scelta è stata effettuata da commissari Anvur che afferiscono a dipartimenti universitari italiani, e che sono quindi in evidente conflitto di interessi. Inoltre, stando alla relazione finale Vqr firmata dalla stessa Anvur, «tra le finalità della Vqr non compare il confronto della qualità della ricerca fra aree scientifiche diverse». Questo confronto è stato invece fatto, e ha prodotto disparità non giustificate fra il numero di «eccellenti» nelle diverse aree scientifiche (ad esempio: 35 in economia e 8 nelle scienze politiche), frutto delle scelte discrezionali operate nell’individuazione dell’Ispd. L’esercizio produce una suddivisione in due gruppi di dipartimenti (352 «eccellenti», a fronte di circa 500 «non eccellenti»), sulla base di differenze anche minime su questo indicatore; basato esclusivamente del giudizio costruito dall’Anvur su due pubblicazioni scientifiche di ciascuno dei docenti italiani, senza tenere conto della complessiva produzione scientifica dei dipartimenti, dell’impegno e della qualità della didattica, della loro capacità di interagire fruttuosamente con i propri territori di insediamento («terza missione»). La scelta dei dipartimenti effettivamente destinatari del finanziamento aggiuntivo (180 dei 352) avverrà poi sia sulla base dell’Ispd, sia sulla base dei giudizi discrezionali su un «progetto di sviluppo dipartimentale» effettuato da una commissione nominata dal ministro, e presieduta dalla rettrice di una università privata, composta da docenti che, anche per le proprie normali relazioni con componenti di alcuni dei dipartimenti oggetto di valutazione, non potranno avere carattere di terzietà.
Secondo. Ammesso (ma certamente non concesso) che vengano selezionati i «migliori», va considerato che il finanziamento ad essi destinato è tratto da una sezione appositamente istituita del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università. Contrariamente a quanto recentemente, e molto sorprendentemente, sostenuto dal presidente della Conferenza dei rettori (Crui), nei dispositivi di legge non vi è alcun elemento per affermare che si tratti di finanziamenti aggiuntivi. In mancanza di un significativo aumento del Ffo nei prossimi cinque anni, essi saranno sottratti al resto del sistema universitario. Ma anche se così fosse, destinare solo ad alcuni gli auspicabili incrementi del Ffo è politica assai discutibile. Il fondo ordinario è stato ridotto di circa il 20% negli ultimi otto anni (mentre, ad esempio, è cresciuto di oltre il 20% in Germania); il finanziamento pubblico delle università italiane è straordinariamente inferiore a quello di tutti i paesi comparabili (meno di 7 miliardi in Italia contro i circa 27 della Germania). Per di più una quota crescente dello stesso Ffo è già allocato fra gli atenei sulla base degli stessi esiti della stessa Vqr (cosiddetta «quota premiale»). Si tratta quindi di un ulteriore finanziamento agli stessi soggetti già premiati (la corrispondenza fra gli atenei che traggono giovamento dalla quota premiale, e i dipartimenti «eccellenti» è, per definizione, altissima). La circostanza poi che alcune tipologie di pubblicazioni scientifiche (decise dall’Anvur) diventino strumento per acquisire risorse finanziarie, sta avendo e avrà conseguenze durature, negative, sia sull’attenzione per la didattica, sia sugli ambiti e le modalità della ricerca italiana: le valutazioni citazionali premiano chi fa ricerca su temi, utilizza metodologie e pubblica su riviste, coerenti con gli approcci scientifici maggioritari.
Terzo. Una politica basata sul finanziamento di alcuni dipartimenti, a danno degli altri (o comunque in presenza di un finanziamento complessivo assai ridotto) non è la strada migliore da seguire per l’Italia. Si tratta di una decisione di grande rilevanza, presa però dal Parlamento solo con un voto di fiducia sull’intera Legge di Stabilità, grazie all’inserimento di una norma – non preannunciata né inserita in documenti strategici – che avrebbe meritato una discussione parlamentare ben più approfondita. L’individuazione di 180 dipartimenti cui saranno destinate cospicue risorse per cinque anni produrrà una profonda frattura (certamente non giustificata da qualsiasi dato si consideri) fra una serie A e una serie B nel sistema; essi – anche grazie al reclutamento differenziale che potranno effettuare – rafforzeranno certamente con l’andar del tempo la propria posizione relativa a danno degli altri, con un evidente circolo vizioso. Si sta così definendo il futuro dell’università per decenni. La concentrazione delle scarse risorse su alcuni atenei e dipartimenti non favorirà, anzi ostacolerà, l’obiettivo di incrementare fortemente il numero e la qualità dei giovani laureati italiani (oggi su livelli minimi), per cui è necessario un sistema di qualità diffuso territorialmente; specie in presenza di un diritto allo studio che in Italia è risibile in comparazione internazionale. Si rafforzerà una migrazione studentesca, selettiva per censo, e a senso unico. La fortissima concentrazione territoriale dei finanziamenti prodotta da queste scelte in alcune regioni del Nord (il 42% dei dipartimenti selezionati nella prima fase è in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) rafforzerà, invece di compensare, i fenomeni di migrazione interna al Paese sia di giovani ricercatori sia di studenti, con evidenti effetti distributivi di breve (la migrazione di studenti dal Sud genera già oggi uno spostamento di reddito a vantaggio del Centro Nord superiore ai 2,5 miliardi di euro all’anno) e lungo periodo. Tali decisioni trascurano totalmente l’impatto che l’università produce sullo sviluppo regionale. Con questo provvedimento saranno sostenuti nell’intera Sicilia solo due dipartimenti, entrambi giuridici (nessuno a Messina): ma alla Sicilia servono davvero più laureati solo in giurisprudenza, e meno nelle altre discipline (tranne chi emigra al Nord per studiare – e poi come accade nella maggioranza dei casi, vi rimane)? La progressiva marginalizzazione delle università meridionali (ma lo stesso vale per il Centro Italia e per la Liguria), frutto di questa come di una lunga serie di precedenti scelte discrezionali, produrrà certamente l’effetto di rallentare il già debolissimo processo di sviluppo economico, a danno dei suoi cittadini e del benessere di lungo periodo dell’intero Paese. Se molti dipartimenti del Mezzogiorno possono apparire all’Anvur relativamente «deboli», la scelta di indebolirli ulteriormente è tutta politica; scelte alternative di rafforzamento, anche selettivo, anche con modalità innovative, sono pienamente possibili. Misure come queste, infine, promettendo denari ad alcuni, non importa se a danno di altri, sollecitano egoismi e particolarismi, e rendono sempre più difficile immaginare modalità e politiche di sviluppo dell’intero sistema universitario italiano.
Il decisore politico è sovrano, e le sue decisioni saranno attuate. Certamente però non può sostenere che si tratti di scelte tecniche, di «premio del merito». Sarebbe un’affermazione vigliacca. Questa, come molte precedenti scelte sull’università italiana, ha un carattere fortemente politico. Di esse, e delle sue conseguenze sull’equità e lo sviluppo del Paese e delle sue regioni, il Parlamento e il governo devono prendersi ogni responsabilità.
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