Le domande con cui abbiamo concluso la prima puntata – che cosa conviene fare della grammatica a scuola? Smettere di insegnarla o tentare di riformarla profondamente? – hanno una lunga storia alle spalle. È necessario conoscere questa storia nelle sue linee portanti, non solo per prospettare risposte non illusorie, ma anche perché è un capitolo molto interessante della storia della linguistica e della cultura in Italia nell’ultimo mezzo secolo.
Partiamo da Tullio De Mauro, che di questa storia è stato un protagonista. Con la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) De Mauro aveva creato un modello nuovo di storiografia linguistica: non la storia di una lingua letteraria, ma la storia di un Paese, di una società, interpretata alla luce delle sue vicende linguistiche. Con l’edizione italiana del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1967) si era posto come esegeta del primo teorico di una linguistica sincronica incentrata sulla natura sociale del segno linguistico. E con la contemporanea fondazione della Società di linguistica italiana (Sli), aperta ad accademici, studenti universitari e insegnanti, aveva messo in atto la sua idea della ricerca linguistica proiettata nella società e a vantaggio della società. Idea che arrivava poi a investire specificamente il mondo della scuola con la fondazione del Giscel (Gruppo di intervento e di studio nel campo dell’educazione linguistica), creato nel 1973 come articolazione interna della Sli. La Storia linguistica dell’Italia unita calcolava che gli italofoni, al momento dell’Unità d’Italia, fossero il 2,5% della popolazione: una percentuale spettacolare e volutamente provocatoria, completata poi dalla messa a fuoco del concetto di “italiano popolare unitario” (1970), cioè la varietà diastratica di italiano conquistata, al di fuori della scuola, dalle masse popolari dialettofone nel corso della loro epica lotta per entrare da protagoniste nella storia italiana.
Questo era lo sfondo culturale e politico delle Dieci Tesi per l’Educazione Linguistica democratica del Giscel (1975) da cui siamo partiti. La “pedagogia linguistica tradizionale” vi era identificata, in sintonia con la Lettera a una professoressa (1967) della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, con la grammatica scolastica repressiva fatta per escludere dalla padronanza dell’italiano i figli del popolo. Viceversa, l’educazione linguistica democratica doveva includere e promuovere, partendo dalle condizioni linguistiche reali degli alunni, ritenute ancora segnate in grande misura dalla dialettofonia, e migliorandole attraverso la pratica delle quattro abilità, la riflessione sul parlato e lo scritto, sui dialetti e la lingua, sulle varietà diastratiche e diafasiche dell’italiano.
L’educazione linguistica democratica doveva includere e promuovere, partendo dalle condizioni linguistiche reali degli alunni, ancora segnate in grande misura dalla dialettofonia, e migliorandole attraverso la pratica
Non sembra che in questo programma la grammatica, absit iniuria verbo, avesse spazio e funzione. Non solo la grammatichetta scolastica dell’epoca (destinata a rimanere indisturbata nell’uso fino a oggi), ma neanche (anzi direi meno che mai) la ricerca grammaticale in pieno rigoglio nella linguistica internazionale di quegli anni: “Ci vorrà molto tempo prima che per l’italiano si disponga di una grammatica adeguata ai fatti”, Tesi VII.D.c – e, si sarebbe tentati di aggiungere, ch’anco tardi a venir non vi sia grave. Tanto è vero che nel nuovo curriculum per gli insegnanti, universitario e post-universitario, che si invoca (Tesi IX), ci sono “scienze del linguaggio” a profusione (“nel bagaglio dei futuri docenti dovranno entrare competenze finora considerate riservate agli specialisti e staccate l’una dall’altra. Si tratterà allora di integrare nella loro complessiva formazione competenze sul linguaggio e le lingue (di ordine teorico, sociologico, psicologico e storico)…”, ma niente grammatica.
Perché questa singolare preclusione? Credo che la vera ragione stesse nel fatto che nel 1975 aveva già dato grandissime prove di vitalità scientifica, che indicavano l’enorme successo mondiale che avrebbe avuto almeno per altro mezzo secolo, la grammatica generativa di Noam Chomsky, contro la quale De Mauro mantenne sempre una inflessibile ostilità. Motivata da cosa? Immagino dal fatto che Chomsky non concepiva la linguistica come scienza sociale ma come scienza cognitiva, avendo riferimenti ideali e scientifici diversi dai riferimenti linguistico-filosofici cari a De Mauro (Saussure e l’ultimo Wittgenstein) e completamente estranei ai suoi specifici riferimenti storicisti italiani, da Ascoli a Lombardo Radice a Croce a Gramsci.
Curiosamente, era stato proprio De Mauro a far tradurre il primo libro di Chomsky, Syntactic Structures (1957), che uscì presso Laterza nel 1970 con la traduzione di Francesco Antinucci (ma altri 3 volumi di Saggi linguistici vennero tradotti da Boringhieri a cura di Armando De Palma e con prefazione di Giulio Lepschy, 1969-70). Eppure era in quello stesso ambiente e in quegli anni che era nata l’idea di scrivere collettivamente una nuova grammatica dell’italiano, che fosse all’altezza della ricerca linguistica contemporanea, ispirandosi ai principi della grammatica generativa. Se ne era assunto il compito Lorenzo Renzi, filologo romanzo di Padova, inizialmente in coppia col ricordato Antinucci, e poi invece coadiuvato da Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti. Il risultato sarà la formidabile Grande grammatica italiana di consultazione (Ggic), in tre volumi pubblicati dal Mulino fra il 1988 e il 1995: “una pietra miliare nello studio della grammatica italiana”, secondo l’autorevolissimo giudizio di Lepschy (1989). Non c’era voluto poi così tanto tempo perché per l’italiano si disponesse di una grammatica adeguata ai fatti.
L’opera compiuta dimostrava che il principio di fondo della grammatica generativa – cioè che la linguistica non deve rendere conto dell’immenso corpus dei testi di una lingua, ma della competenza nativa dei suoi parlanti – aveva funzionato bene, perché aveva guidato gli autori della Ggic a ricercare le regole, inconsapevolmente attive nelle nostre menti di parlanti nativi, che ci rendono capaci di produrre e riconoscere tutte le infinite frasi grammaticali dell’italiano: e con ciò li aveva spinti a trovare una descrizione della sintassi dell’italiano molto più esplicativa, molto più illuminante, molto più vicina a come essa funziona realmente. Dunque una descrizione capace di sostituire, con spiegazioni convincenti, perché verificate dalle nostre intuizioni di parlanti nativi, gli ampi settori della grammatica tradizionale obsoleti e non corrispondenti affatto alle nostre intuizioni di parlanti. E proprio per questo una descrizione con potenzialità didattiche incomparabilmente più vive della descrizione tradizionale.
Infatti Renzi l’aveva concepita proprio come applicazione all’italiano, rivolta a tutti i non specialisti, “nella forma più piana possibile, esente da tecnicismi”, e particolarmente orientata a fornire la base per una rinnovata grammatica scolastica. Ma, nel licenziare la seconda edizione (2001), aveva dovuto prendere atto che questo non era avvenuto: “Bisogna riconoscere che un’utopia è caduta: quella che la Grande grammatica potesse mediare fra grammatica scientifica e grammatica scolastica”.
Nelle molte e meritorie iniziative Giscel dei decenni successivi, non ricordo praticamente alcuna esperienza di utilizzo didattico della Ggic; e la rivista “Italiano & Oltre”, notevolissimo strumento di diffusione nel mondo della scuola di qualunque fatto che avesse un pur lontano rapporto col linguaggio, in tutti i suoi 19 ammirevoli anni di vita (1986-2004), ha dedicato solo nel numero IV/1 (1989) qualche pagina per recensire cumulativamente le grammatiche di Serianni, Renzi (primo volume) e Schwarze uscite nel 1988 (mentre il numero precedente ospitava una discussione surreale su come potesse essere concepita una grammatica didattica). Questo disinteresse per la Ggic da parte del mondo entro il quale e per il quale essa era stata originariamente concepita può forse esser visto con un po’ d’amarezza, ma spiega solo in piccola parte il fatto che essa non è minimamente entrata nella scuola: tutto il movimento del Giscel, infatti, ha sempre rappresentato una parte molto minoritaria degli insegnanti.
Nei contenuti che noi linguisti italiani abbiamo promosso a contenuti necessari per fare gli insegnanti (di italiano, innanzitutto alle scuole medie) paradossalmente la grammatica non c’è
La spiegazione fondamentale sta nel fatto che la Ggic non è mai entrata nella formazione universitaria dei futuri insegnanti. E non ci è mai entrata perché non è mai entrata nella cultura, nella mentalità e nella strumentazione professionale di noi linguisti italiani (nel senso di docenti del settore scientifico-disciplinare “Linguistica italiana”), che negli ultimi venti o trent’anni abbiamo insegnato agli studenti di Lettere quello che dovevano sapere per poter insegnare italiano anzitutto alle medie. E nei contenuti che abbiamo promosso a contenuti necessari per fare gli insegnanti, paradossalmente, la grammatica non c’è.
Sappiamo tutti che è così. Per dimostrarlo velocemente la fonte documentaria più a portata di mano sarebbero gli Annuari dell’ASLI – Associazione per la Storia della Lingua Italiana, nei quali ogni anno elenchiamo le nostre pubblicazioni, i titoli dei nostri corsi e delle tesi di laurea e di dottorato che seguiamo. Delle migliaia di pubblicazioni e tesi raccolte nei 19 Annuari consultabili online (2005-2023), quante attestano un nostro impegno di studio abbastanza sistematico, e soprattutto un nostro vero interesse di ricerca, per le strutture grammaticali dell’italiano di oggi? E quanti dei nostri corsi universitari, anche sotto le diciture Didattica dell’italiano e simili, vertono con la necessaria organicità sulle strutture grammaticali dell’italiano di oggi, come il primo contenuto su cui i futuri insegnanti avrebbero bisogno di ricevere un robusto aggiornamento scientifico?
Per cui gli insegnanti, al momento in cui si trovano alle medie a dover insegnare italiano, cioè in grande misura grammatica italiana, non hanno altra risorsa che ripescare quello che loro stessi hanno studiato alle medie. Il che, a sua volta, spinge le case editrici a pubblicare solo grammatiche che siano uguali a quelle di venti o trenta (ma anche quaranta o cinquanta) anni fa. Il totale conformismo mimetico dell’editoria scolastica non si giustifica in alcun modo, culturalmente, ma qualche scusante commerciale ce l’ha, e gliel’abbiamo data noi.
È un circolo vizioso micidiale, che si autoalimenta da decenni. Ma bisogna uscirne ora, senza perdere altri trent’anni.
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