È rimbalzata di recente sui media la dichiarazione un po’ polemica con cui Alessandro Barbero ha accompagnato la notizia del suo ritiro anticipato dall’università in cui da anni prestava onorato servizio (per inciso, nella medesima università anch’io ho svolto la mia attività fino al 2019, e Barbero era mio collega nel corso di laurea). Il celebre storico ha in sostanza affermato che l’università italiana è diventata un luogo in cui il peso della burocrazia sta schiacciando e sacrificando la ricerca e la didattica, a tal punto che la permanenza nell’istituzione equivale a una frustrante perdita del proprio tempo, che può essere meglio impiegato altrove.
L’elenco di quanto si può collocare sotto la categoria infausta che denominiamo “burocrazia universitaria” comprende diverse voci, tra le quali l’eccesso di commissioni che si caricano di compiti un tempo delegati al personale amministrativo, la faticosa compilazione di documenti programmatici e analitici superflui, pieni di retorica e di vuoto conformismo, la gestione disorganizzata di coloro che hanno “bisogni educativi speciali” (il marcato incremento dei casi di Dsa sta sollevando interrogativi e discussioni già nel mondo della scuola), la mole di rendicontazioni periodiche all’organo di controllo esterno, l’Anvur, con stesura di documenti che richiedono sempre più tempo, attività e fatica (cosa ben comprensibile, perché burocratizzare la misurazione del merito risulta alla fin fine operazione difficilissima, ma siamo ormai al paradosso, perché si dedica più tempo alla rendicontazione e alla gestione del “merito”, che al lavoro per acquisire davvero quel “merito” che si deve poi faticosamente rendicontare). Inoltre, la didattica cresce in numero di ore di lezione, dirette però sempre più verso il basso, segnate dagli sforzi per recuperare studenti che non riescono a raggiungere i crediti necessari. Costoro devono ritrovare competenze basilari non possedute in ingresso, e necessitano di Ofa e di altri acronimi, per fortuna oscuri per chi non abbia lavorato negli atenei. Allo stesso tempo, una selezione maggiore sarebbe mal vista dalle autorità accademiche, a cui si impone di moltiplicare comunque gli iscritti, in un clima esasperato di concorrenza tra atenei normali e atenei telematici, una sorta di gara che ricorda le competizioni della grande distribuzione, la corsa agli sconti dei supermercati.
Una selezione maggiore sarebbe mal vista dalle autorità accademiche, a cui si impone di moltiplicare gli iscritti: una sorta di gara che ricorda le competizioni della grande distribuzione, la corsa agli sconti dei supermercati
Tuttavia, non di questa lunga e ancora allungabile lista voglio parlare, ma soltanto di un unico aspetto della burocratizzazione universitaria, l’ultimo che forse è emerso e si è imposto nella valutazione degli atenei e dei docenti: la cosiddetta “terza missione”. Per coloro che non sono assueti alla burocrazia universitaria e al suo linguaggio, sarà bene spiegare che all'università, secondo la visione più recente e aggiornata, vengono attribuite tre “missioni” (cioè scopi o compiti): la ricerca, la didattica e, appunto, la terza missione, per la quale si valutano i “processi, i risultati e i prodotti delle attività di gestione, formazione, ricerca, ivi compreso il trasferimento tecnologico” (come specificato all’art. 3 c. 1 del Regolamento istitutivo dell’Anvur D.p.R. 76/2010). Questa formulazione è forse oscura, come accade al burocratese, ma comunque già si intende che il concetto di “formazione” qui evocato non si riferisce alla missione didattica, ampiamente nota da secoli, e il concetto di “ricerca” qui non si riferisce alla missione primaria delle università, anch’essa ampiamente nota e condivisa almeno dalla metà del secolo XIX. Dietro queste nuove formulazioni di “formazione” e “ricerca” si collocano ora compiti diversi. Si immagina un’attività scientifica che entra in contatto con l'imprenditoria e il lavoro privato presente nel territorio d’azione dell’università, e anzi l’università viene spinta a collaborare con la società intera per finalizzare utilmente a scopi pratici le proprie competenze di alto valore scientifico, che in questo modo escono dalla torre d’avorio dei dotti e sono messe in circolo a beneficio di tutti. Forse è più chiara la definizione che si legge nel sito dell'università di Alessandro Barbero: “Per Terza missione si intende l’insieme delle attività con le quali l’Università entra in interazione diretta con la società, ne favorisce lo sviluppo economico, culturale e sociale, attraverso la trasformazione, la messa a disposizione e la circolazione della conoscenza prodotta principalmente con l’attività di ricerca”.
Questo benefico programma umanitario, una volta trasformato in burocrazia della valutazione, finisce per investire tutti, e non bene. Nelle facoltà umanistiche, quelle di cui ho esperienza, il “trasferimento tecnologico” a cui allude il Regolamento Anvur viene di solito inteso come “disseminazione del sapere”, cioè divulgazione delle conoscenze di natura storica, letteraria, filosofica possedute dal corpo docente, prima riservate ai libri e agli articoli scientifici nelle riviste specializzate. In sostanza, si tratta di organizzare corsi, conferenze, incontri, analoghi a quelli che sempre si sono tenuti nell’università, ma per ovvie ragioni questi nuovi devono collocarsi a un livello di maggiore divulgazione e attrattività, perché la disseminazione del sapere richiede un pubblico e, se il pubblico manca o scappa, l’operazione viene considerata fallita, tant’è vero che nei questionari di valutazione della terza missione ha sempre molto spazio la ricognizione del luogo in cui si è svolto l’evento, dei posti disponibili offerti, dei posti occupati dal pubblico.
All’apparenza, l’apertura della presunta torre d’avorio al mondo che la circonda appare come una splendida e rivoluzionaria acquisizione, destinata ad avvicinare la gente assetata di conoscenza al regno del sapere, garantendo il progresso della nazione e le magnifiche sorti e progressive alle quali va il plauso di tutti noi. Di fatto, però, questa terza missione, almeno per le università con corsi di laurea umanistici, nasconde alcuni rischi gravi. Di questi parleremo ora.
Il terreno della disseminazione del sapere in cui l’università è obbligata a entrare si caratterizza per una concorrenza spietata. Molte istituzioni di ogni genere si devono dare oggi il compito della divulgazione del sapere, volenti o nolenti
Intanto, il terreno della disseminazione del sapere in cui l’università è obbligata a entrare si caratterizza per una concorrenza spietata. Molte istituzioni di ogni genere si devono dare oggi il compito della divulgazione del sapere, volenti o nolenti. Penso alle accademie, anche quelle famose come la Crusca, l’Accademia dei Lincei, l’Accademia delle scienze di Torino, l’Istituto lombardo di Milano. Tutte queste istituzioni organizzano corsi, vanno a caccia di insegnanti da aggiornare, aprono le loro antiche e nobilissime sale al pubblico, e anzi si danno da fare per attrarlo nella maggior quantità possibile. A queste si aggiungono le accademie più piccole, gli Istituti di cultura (riuniti in una apposita tabella del ministero della Cultura, che divide tra essi le risorse anche in base alla loro capacità di fare “terza missione”, che nel caso specifico diventa di fatto prima se non unica missione).
Ci sono poi le università popolari e della terza età. Tutti cercano di fare divulgazione e disseminazione del sapere, tutti cercano disperatamente di attrarre pubblico. In molti casi, questa è l’unica cosa utile che possono fare, e quindi non c’è motivo di scoraggiarli. Hanno a disposizione biblioteche, professori emeriti già al servizio delle università e ancora competenti e validi. Molto spesso hanno imparato a utilizzare i canali social, YouTube, anche se le visualizzazioni non raggiungono mai il numero elevatissimo che gratifica alcuni influencer culturali che si muovono autonomamente dando lezioni di storia, di lingua italiana, di scienza (e non necessariamente in malo modo). Molti tra gli enti che ho citato hanno stretto accordi di collaborazione con ordini professionali per elargire crediti formativi, previsti dalla legge, e con questo si garantiscono un pubblico più stabile.
Gli insegnanti sono preda ambitissima, per chi ha la qualifica di aggiornatore garantito dalla piattaforma informatica ministeriale. Non voglio parlare dei corsi legati a interessi particolari, nel settore della salute, dell’alimentazione, del green, che possono essere collegati a notevoli valenze commerciali. Anche le fondazioni bancarie sono presenti in quest’esposizione brillante di cultura, con tutta la loro potenza economica. E non considero il ruolo crescente dei festival culturali, che si moltiplicano ogni anno.
In una selva del genere, viene gettata anche l’università. Si badi, io non nego che un ateneo possa avere interesse a organizzare attività che attirino un pubblico più vasto a scopo promozionale, specialmente quando ha a disposizione docenti che si prestino all’incontro con il pubblico, con forti doti comunicative, capaci di dare il meglio di sé in questi esercizi pubblici. Tutti sappiamo che ci sono grandi studiosi che con il pubblico non legano affatto, e studiosi mediocri che invece se la cavano bene. Può essere giusto trarre il meglio da ciascuno, secondo le proprie possibilità. Allo stesso modo, il caso fortunato e più raro di studiosi di grande valore che sappiano anche divulgare, può essere visto come una circostanza favorevole da sfruttare. Tutto ciò fa parte della vitalità di un ateneo nella sua autonomia.
Le cose però cambiano quando la terza missione diventa un obbligo da misurare e pesare a scopo di valutazione collettiva e individuale, per tutti i dipartimenti e magari per tutti i docenti. Si crea allora una burocratizzazione perniciosa che distoglie l’università e i suoi docenti dalle due prime missioni, che sono le uniche veramente importanti, anzi le uniche vere, non perché la disseminazione del sapere non conti, ma perché la fanno molti altri altrettanto bene, laddove il compito della ricerca è di per sé talmente rilevante, unico e necessario da non ammettere distrazioni e intoppi, pena la morte stessa dell’università, trasformata in un circo che si contende le piazze sfidando dilettanti e istituzioni magari più piccole, ma anche più libere e più snelle, dunque più agili.
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