La fame di occupazione del potere da parte della maggioranza politica uscita dalle urne del 4 marzo scorso è stata sottolineata da più parti. I leader dei partiti di governo l’hanno presentata come lo strumento essenziale per ottenere quel “cambiamento” che dovrebbe suggellare la (supposta) volontà degli elettori che hanno scelto di ribaltare il tavolo. Le opposizioni gridano all’occupazione del potere oltre ogni limite e si stracciano le vesti. Un osservatore esterno potrebbe cavarsela citando il detto evangelico: chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Si può però tentare un ragionamento di tipo diverso. Siamo, evidentemente, davanti alla sempiterna questione dello spoil system, cioè del presunto diritto del vincitore di una competizione elettorale a garantirsi che la macchina burocratica lavori secondo quelle progettualità che chi è al governo è convinto di rappresentare su mandato degli elettori, affinché «la macchina», un mostro dai mille tentacoli, non si trasformi al contrario in un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi.
Un ragionamento che ha una sua logica ma da quale, tuttavia, non dovrebbe discendere automaticamente che i vincitori siano autorizzati a mettere a capo delle burocrazie i loro “fedeli”. È un tema che si è presentato già nei precedenti cambi di regime. Sia nel fascismo, con i capi di seconda fila che premevano per avere nei posti che contano le “fedeli camice nere” (cosa che Mussolini si guardò bene dal fare, preferendo fidelizzare a sé membri espressi dalle filiere tradizionali). Sia nel regime democristiano, con le polemiche sulle “filiere clericali” di selezione (in realtà molto circoscritte per l’esistenza di un sistema di concorsi pubblici di reclutamento la cui manipolazione finiva per richiedere qualche forma di manomissione).
Per ovviare ai vari problemi, a partire dalla metà degli anni Settanta il nostro sistema ha predisposto un confuso coacervo di predisposizioni legislative volte, da un lato, a dotare i vertici politici di sistemi di scelta fiduciaria di alti collaboratori e, dall’altro, a cercar di impedire, almeno in teoria, la lottizzazione di alcuni sistemi di nomine da parte dei partiti.
Erano obiettivi contraddittori e come tali hanno prodotti guai. Grazie, si fa per dire, a un forte deficit di etica pubblica nell’esercizio di queste funzioni il rischio del disastro è infatti sempre dietro l’angolo.
Emblema di questo pasticcio nazionale è la Rai. Azienda pubblica che esercita (o dovrebbe esercitare) una funzione formativa sull’opinione pubblica, non quella di un’agenzia di sostegno delle politiche del governo né di propaganda contro l’opposizione. Paradossalmente questo orientamento è stato più osservato nella prima metà del dominio democristiano che non in seguito. Allora il sostegno al governo si manteneva, per così dire, in limiti di adesione all’ufficialità e nel perseguire un orientamento culturale moderatamente consono al tradizionalismo. In seguito la battaglia affinché ci fosse più spazio per tutte le dinamiche presenti nel Paese ha portato alla istituzionalizzazione della lottizzazione per componenti politico-culturali. Anche in questo caso in una prima fase gestita in maniera più istituzionalizzata, poi conquistata dal movimentismo fazioso e dalle lotte di potere che hanno funestato la nostra classe politica.
Da questo gorgo non si è più usciti. Anzi, ci si è inabissati sempre più. La Rai strattonata fra berlusconiani e antiberlusconiani è stata un triste esempio di quella lotta civile fredda che ha contribuito non poco ad avvelenare il clima del nostro Paese, dettando la linea a tutto il sistema radiotelevisivo anche a gestione privata. I tentativi di moderare questo andazzo si sono rivelati fallimentari. Un CdA con un pezzo in mano alle dinamiche parlamentari, con la consueta salvaguardia delle minoranze difficile da esercitare quando non ci sia almeno un bipolarismo se non un bipartitismo, un pezzo in mano al ministero dell’Economia nella presunzione, oggi dimostratasi infondata, che quella sede avesse una sfera di autonomia dalla sua maggioranza, e con la foglia di fico di un membro eletto dai dipendenti, è l’immagine palmare della mancanza di cognizione di che cosa sia un servizio pubblico.
Questo tipo di assetto non è un’invenzione dell’attuale maggioranza e anche le precedenti l’hanno usato in maniera assai poco virtuosa; sicché ora, di fronte al palese naufragio del sistema, manca qualsiasi reale coinvolgimento dell’opinione pubblica che possa condizionare dall’esterno l’evolversi della situazione in senso positivo. Tutto finisce per apparire come una resa dei conti fra fazioni politiche, di scarsissimo interesse per cittadini che oltre tutto presumono che il pluralismo televisivo consenta loro di sottrarsi al consumo obbligato di quanto esce dalle cucine Rai.
Non è così, perché comunque nel sistema tutto si tiene. E il veleno delle lotte di fazione continua a scorrere, sempre più, anche nei canali televisivi di questo nostro irriformabile Paese.
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