Verso un indipendentismo riluttante. Oltre che per il sindaco di Londra, giovedì 5 maggio si è votato, nel Regno Unito, anche per le assemblee «devolute». La Scozia rappresentava il test più interessante per evidenti ragioni di tenuta dell’Unione da un lato, e una prova importante per la leadership labour di Corbyn, in una regione a lungo considerata un feudo laburista, dall’altro lato.
Il referendum del 2014 sull’indipendenza scozzese, pur avendo registrato la vittoria del «no», aveva chiaramente riattivato l’immaginazione politica degli scozzesi attorno alla questione costituzionale dell’autodeterminazione. In un simile scenario, il Partito nazionalista scozzese (Snp) ha visto crescere nei sondaggi i consensi, con la promessa di tenere alta la pressione per un secondo referendum sull’indipendenza.
Nicola Sturgeon, succeduta ad Alex Salmond alla guida del partito, ha proseguito l’opera di riposizionamento dello Snp verso il centro-sinistra, occupando uno spazio politico che cerca di realizzare una sintesi tra diverse istanze della società scozzese, tradizionalmente attenta a diversi aspetti dello Stato sociale. In definitiva, la scommessa dello Snp è stata, durante la campagna elettorale, quella di capitalizzare sul malcontento laburista, in particolare nell’elettorato di città tradizionalmente rosse come Glasgow e Dundee. È chiaro che la sfida si giocava anche sul potenziale elettorale di Corbyn. Il laburismo scozzese aveva infatti commesso due errori gravissimi nella campagna referendaria del 2014: in primo luogo, aveva dato per scontato la Scozia come bacino elettorale fedele e poco volatile; in secondo luogo, i laburisti avevano fatto campagna per l’Unione formando un comitato nel quale erano presenti anche i tories, fornendo così un argomento potente allo Snp circa la subalternità laburista alle politiche conservatrici, in ultima istanza contrarie agli interessi scozzesi.
Rispetto quindi alle due questioni menzionate, ossia alla capacità egemonica dello Snp e allo stato di salute dei laburisti, i risultati delle elezioni scozzesi del 5 maggio danno due risposte di segno differente. Quasi due anni dopo il referendum, il voto scozzese conferma il Partito nazionalista scozzese (Snp) con la maggioranza relativa e con una quantità di voti superiore a quella del secondo e del terzo partito messi assieme. Tuttavia, rispetto alle precedenti elezioni di cinque anni fa, lo Snp non ottiene la maggioranza assoluta dei seggi, seppur di poco (62 seggi, essendo la maggioranza assoluta di 64). Il successo dello Snp è innegabile, così come la sua capacità trasversale di attirare voti a destra e a sinistra facendo perno sulla questione nazionale. Si tratta, inoltre, della terza affermazione consecutiva nelle elezioni scozzesi, in un sistema elettorale che era stato designato precisamente per evitare che lo Snp ottenesse la maggioranza. Tuttavia, questo successo non ha avuto i caratteri straordinari della precedente tornata elettorale; lo Snp formerà probabilmente un governo di minoranza (come avvenne nel 2007) o uno di coalizione con i liberal-democratici (i quali hanno ottenuto 5 seggi).
Per il Labour il risultato è traumatico. I seggi ottenuti si sono dimezzati; addirittura, i tories sono divenuti il secondo partito scozzese e, a questo punto, l’opposizione ufficiale. Nonostante Corbyn abbia riportato il partito verso posizioni meno centriste, la reputazione laburista è oramai compromessa proprio in quell’elettorato che dovrebbe costituirne la base elettorale naturale. Va notato che mentre nelle città il travaso dei voti Labour ha favorito lo Snp e i Verdi, nelle zone rurali tale voto si è spostato verso i tories. Inoltre, il partito di sinistra Rise, nato come aggregazione dei movimenti progressisti che hanno fatto campagna per il «sì» al referendum sull’indipendenza, non ha ottenuto alcun seggio. Paradossalmente, in una società che si percepisce come impegnata per lo Stato sociale e fortemente critica, nella stragrande maggioranza, con le politiche del governo Cameron, manca una forte rappresentanza di sinistra. Tale risultato appare ancora più contradditorio quando contrapposto alle elezioni nell’Irlanda del Nord, dove il partito People before profits è riuscito ad eleggere ben due rappresentanti.
Infine, per la questione dell’indipendenza appare chiaro che nel breve termine lo Snp non ha in realtà alcuna intenzione di riaprire la discussione. Un governo conservatore a Londra permette allo Snp di giocare il ruolo di forza di governo in Scozia, capitalizzando sulla credibilità di opposizione a Cameron a Londra. Uno scenario alquanto vantaggioso, al quale va aggiunto un fattore di realpolitik da non sottovalutare: la campagna indipendentista era stata sostenuta da un piano economico fondato sulla nazionalizzazione e creazione di un fondo di gestione delle risorse petrolifere ispirato al modello norvegese. Con il prezzo del petrolio che oscilla fra i 30 e i 40 dollari al barile, è divenuto più difficile convincere gli scozzesi che l’indipendenza garantisce anche l’autonomia economico-finanziaria. Si tratta, a questo punto, di vedere che cosa capiterà nel referendum del 23 giugno sul Brexit. Una (improbabile) vittoria degli euro-scettici potrebbe costringere lo Snp a riaprire la questione indipendentista.
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