Quando papa Francesco lanciò la provocazione della “Terza Guerra mondiale a pezzi”, molti, compreso chi scrive, la accolsero con qualche perplessità. Ripensandoci, dipendeva dal fatto che siamo rimasti legati all’interpretazione che abbiamo dato della Seconda guerra mondiale: un grande scontro fra le “nazioni unite” (democratiche) e le dittature di estrema destra. Lasciamo da parte la questione, tutt’altro che secondaria, se l’Urss di Stalin potesse essere inclusa nelle democrazie, sia pure come regime in evoluzione tendenziale verso una “democrazia socialista” (fu una tesi che circolò, per quanto rivelatasi infondata) e piuttosto mettiamo in rilievo l’immagine “bipolare” che venne data all’evento bellico: democrazia contro fascismo. Quell’immagine/interpretazione si trasferì poi rapidamente nel bipolarismo della Guerra fredda. Entrambi i contendenti, Usa e Urss coi rispettivi “blocchi”, pretendevano di essere ciascuno il vero erede del fronte democratico, essendo l’avversario il continuatore, sotto nuove spoglie, del fascismo.

Ciò si pensava avrebbe finito per portare alla ripresa della “grande guerra”, appunto la Terza guerra mondiale, Occidente contro Oriente, capitalismo contro socialismo, o qualcosa del genere, con la replica dello scontro bellico ora sotto l’incubo del confronto nucleare. Forse perché ci si rendeva conto che sarebbe stata una mutual assured destruction, una “mad”, una pazzia totale, forse perché circostanze fortunate nello sviluppo economico consigliarono di non metterlo a rischio, forse perché talora qualche razionalità esiste anche nella gestione delle relazioni interazionali, quella grande guerra non scoppiò, nonostante non pochi momenti critici.

Mi pare però che oggi dobbiamo fare una riflessione più complessiva che riveda l’interpretazione del significato delle due guerre mondiali. Nel 1961 uscì il libro dello storico tedesco Fritz Fischer che metteva in luce, con ampia documentazione d’archivio, come i ceti dirigenti della Germania d’inizio Novecento fossero mossi dalla convinzione che si doveva mettere in questione l’equilibrio di potere che si era affermato in Europa, e di conseguenza nel mondo, con la sistemazione che si era avuta fra il Congresso di Vienna (1814-15) e gli eventi intorno al 1870. Il libro fu tradotto in italiano da Einaudi nel 1967 col titolo Assalto al potere mondiale. Molto discusso, senz’altro suscettibile di raffinature e precisazioni, toccava un punto fondamentale: all'inizio del XX secolo una quota molto significativa della cultura di governo tedesca era convinta che fosse inevitabile affrontare il problema della “discutibilità precaria” dell’equilibrio esistente e che ciò avrebbe comportato una guerra che avrebbe coinvolto tutti.

Va precisato che convincimenti simili erano molto diffusi presso i ceti dirigenti di altre “potenze” (più o meno rilevanti), anche se non tutti pensavano che la crisi dell’equilibrio fosse tale da non potere essere ristabilito e ritenevano che si potessero evitare i rischi di una guerra, grande e mondiale, pregiudizievole per la prosperità economica. Nonostante le remore di alcuni, ci fu la guerra, che non riuscì affatto a ristabilire una qualche nuova forma di equilibrio (pur a parole invocata da alcuni vincitori) anche per quella “pace cartaginese” (la famosa definizione è di Keynes) che a quella prospettiva non aveva intenzione di adeguarsi. Di nuovo, l’obiettivo della Seconda guerra mondiale, giustamente considerata una sorta di proseguimento della Prima (si ricordi la definizione del periodo come “nuova guerra dei trent’anni”), fu come regolare l’ordine internazionale, non più sulla base di un “concerto di potenze” (la vecchia definizione ottocentesca), ma dell’utilizzo come strumento regolatore di una ideologia condivisa dell’ordine internazionale così come si riteneva fosse maturata nella grande alleanza antifascista.

Mi sembra che in questo momento si stia arrivando, sempre per contorte tappe successive, alla sfida generalizzata all’ordine internazionale post-1945. Il neoimperialismo che si sta affermando non va sottovalutato

Quella volta però si arrivò, sia pure con tutte le ambiguità e le asperità della storia umana, a costruire, per tappe, un equilibrio di convivenza che ha retto fin quasi alla fine del XX secolo. Mi sembra che in questo momento si stia arrivando, sempre per contorte tappe successive, alla sfida generalizzata all’ordine internazionale post-1945. Il neoimperialismo che si sta affermando non va sottovalutato. Certo è sempre più impressionante la sfida aperta che la Russia di Putin ha lanciato contro “l’Occidente” (categoria misteriosa, in verità, come lo sono tutte le categorie della fattispecie “diabolica”), ma si tratta di un fenomeno che coinvolge molte componenti: dalla galassia dei Paesi e dei movimenti che, in modo diverso e anche contraddittorio, si riferiscono a una certa tradizione dell’islamismo, al risorgere di ciò che mi permetterei di chiamare “asiatismo” (non solo la Cina, ma anche l’India), a molte correnti che percorrono l’ex Terzo mondo e l’America Latina.

L’incertezza sulla tenuta del consenso circa la stabilizzazione, certo discutibile, ma perfezionabile piuttosto che disprezzabile, raggiunta nella seconda metà del XX secolo pervade anche quella parte di mondo in cui si era sviluppata e affermata la cultura che l’aveva prodotta. Si veda il duplice, concorrente fenomeno della fuga verso l’utopia, che sbrigativamente identificheremo nelle varie e composite versioni della cancel culture, e della rinascita del reazionarismo, moderato o radicale che sia.

Questo contesto sta scatenando una sorta di “liberi tutti” per cui forze diverse pensano, o più probabilmente si illudono, di poter scardinare la storia, aprire una nuova era con le connesse demagogie. Si scatena di conseguenza una molteplicità di conflitti di diversa intensità e rilevanza, conflitti che hanno come obiettivo quello di ridisegnare la mappa almeno di porzioni del mondo, che però sono porzioni chiave e che perciò hanno ricadute globali: alcuni sono molto evidenti e hanno già assunto dimensioni ragguardevoli (invasione russa in Ucraina; guerra in Medioriente con il tentacolare neoimperialismo iraniano e la ricerca di una risposta finale a esso da parte dell’attuale governo israeliano, forse capofila di un progetto più vasto di ristrutturazione dell’area); altre hanno forme più striscianti (la politica cinese e indiana, quella turca; l’assalto all’Africa), e incentivano anche in vario modo sanguinose guerriglie locali e un universo terroristico da non sottovalutare.

Si tratta, e torno al punto di partenza, della Terza guerra mondiale a pezzi, quella di tipo nuovo, perché non è più questione, o almeno non lo è ancora, di due “blocchi” che si contrappongono in una grande guerra (anche se molti protagonisti lavorano per costruirli nel tentativo di rafforzarsi in uno scontro globale). Siamo di fronte a un assalto tendenzialmente molto largo alla razionalità della convivenza nell’equilibrio, il quale assalto trova forza, temo, nel declinare della fiducia che ci sia ancora spazio per continuare sulla via di uno sviluppo economico e sociale di cui possa largamente approfittare il mondo (il tramonto del mito della affluent economy che poteva diventare un fenomeno generalizzato).

Le incognite sono molte, ci misuriamo con l’emergere di interpretazioni culturali che inquadrano la storia fuori dalle categorie che erano state dominanti e accettate negli ultimi due secoli

Come possa svilupparsi questa sfida, o più precisamente questo assalto all’equilibrio mondiale, chi scrive non è certo in grado di stabilirlo. Le incognite sono molte, ci misuriamo con l’emergere di interpretazioni culturali che inquadrano la storia fuori dalle categorie che erano state dominanti e accettate negli ultimi due secoli, anche nelle relazioni di questo tipo siamo sempre in presenza del concorrere del caso e della necessità, due elementi mutevoli e imprevedibili che difficilmente possono essere razionalizzati a priori: sarebbe già tanto provare a tenerli sotto controllo e provare a gestirli in qualche modo quando si manifestano.

Però credo che questa situazione vada messa a tema, soprattutto in quei contesti come quello europeo, e in specie italiano, dove ci si balocca con diatribe da cortile mentre fuori ci si avvia a uno scontro epocale (non chiamiamolo di civiltà, perché non piace: ma è qualcosa di vagamente simile). Non so se coloro che a cui è toccato di riflettere in pubblico, come quanti si esprimono sui media, siano veramente dotati per dare risposte. Penso però che dovrebbero farci un pensiero.