Poteva andare peggio. Poteva piovere. Così, parafrasando Mel Brooks, si potrebbe commentare il risultato uscito dalle urne per il rinnovo del Parlamento autriaco. Perché rispetto alla vigilia (e al primo exitpoll) i socialdemocratici di Christian Kern sono andati meglio, tenendo la posizione e conquistando la seconda piazza, dietro alla Övp guidata dal trentunenne Sebastian Kurz - il leader popolare dalle idee assai poco moderate, prossimo cancelliere austriaco - ma davanti all’ultradestra di Heinz-Christian Strache (26% dei consensi, più 5% rispetto alle precedenti elezioni).
L’Austria, che dopo vari tentativi aveva eletto presidente il professore verde ed europeista Van der Bellen, ieri ha premiato la destra (e punito duramente i Verdi, che rischiano di restare fuori dal Parlamento, ma manca ancora lo spoglio del voto postale e i dati non possono essere considerati definitivi). Le posizioni prese dal futuro cancelliere durante la campagna elettorale gli hanno garantito popolarità e consensi; ma si tratta di posizioni dichiaratamente di destra, che in gran parte condivide con il Partito delle libertà di Strache. L’uno e l’altro sfiorano il 60% dei consensi. Laddove non era riuscito il candidato xenofobo che aveva tentato di conquistare la presidenza della Repubblica austriaca il dicembre scorso (si votò la stessa domenica del referendum costituzionale italiano), Norbert Hofer, sono riusciti Strache e Kurz. Gran parte dei sei milioni e mezzo di austriaci che ieri si sono espressi hanno detto chiaramente di condividere politiche anti-immigrazione, in buona parte anche anti-europeiste (sull’onda della Brexit, è emersa anche l’ipotesi di un possibile referendum per l’uscita dell’Austria dall’Unione, una cosiddetta «Öxit»). Già durante la campagna per le presidenziali l’orientamento del partito oggi guidato da Strache - sostenitore tra l’altro del “ritorno” dell’Alto Adige all’Austria - era apparso chiaro: razzismo esplicito contro ebrei, gay e immigrati. Ora il rischio maggiore per l’Europa (Italia in testa) è che l’Austria guidata da una coalizione di destra con i socialisti all’opposizione possa entrare, di fatto, nel gruppo di Visegrad, a fianco di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Viene da chiedersi che cosa abbia potuto scatenare una reazione simile, a dieci anni dalla scomparsa in un incidente stradale alla guida della sua Porsche di Jörg Haider, il governatore della Carinzia leader dell’estrema destra austriaca dei primi anni Duemila.
La Repubblica austriaca, nata nel 1918 sulle macerie della Prima guerra mondiale e di quello che fu il grande impero austro-ungarico, l’anno prossimo festeggerà i suoi cent’anni. È un Paese ricco, dove il Welfare e il sistema pensionistico rimangono generosi. Dopo la crisi del 2008, tutti gli indicatori sono positivi: quest’anno il Pil crescerà del 2,8%, un valore che si prevede anche per il 2018, e il tasso di disoccupazione resta uno dei più bassi dell’Eurozona. L’«Austria felix» è sempre più verde, tanto che forse i motivi che alle scorse elezioni portarono ai Grünen il 13,4% dei voti sono in buona parte venuti a mancare. Il Paese è il leader europeo nell'agricoltura biologica (il 20% dei terreni è a biologico o organico). Tutte le catene della grande distribuzione hanno il loro marchio bio e cercano di accontentare i consumatori, in Austria nettamente contrari agli Ogm. Dopo il referendum del 1978 che decise l’abbandono definitivo del nucleare, oggi le rinnovabili sono in continua crescita. Dunque di che si lamentano gli austriaci? Temono anch’essi l’immigrazione. Dopo avere accolto molti profughi dalle guerre balcaniche negli anni Novanta, oggi sembrano del tutto indisposti ad accollarsi una quota dei migranti che arrivano dal sud del mondo fuggendo guerre e povertà. È un film già visto. Da ultimo, alle elezioni per il rinnovo del Bundestag tedesco che hanno premiato l’AfD, con punte impressionanti di consenso in determinate aree della Repubblica federale, soprattutto all’Est. La tentazione di isolarsi convinti in questo modo di proteggersi dai fenomeni che ci sovrastano e che l’Europa stenta a governare sembra irresistibile. E i nostri sistemi politici appaiono sempre più fragili, di fronte a un’ondata di paura che relega il discorso razionale a una categoria inaccettabile e superata. Si vota, per così dire, «di pancia», senza valutare le conseguenze in un momento di grande incertezza a livello mondiale di una progressiva disgregazione degli equilibri usciti dalla Seconda guerra e poi ridefiniti faticosamente, e mai del tutto, dopo il crollo dell’Unione sovietica. Quel che resta dei sistemi partitici nei diversi Paesi europei sembra incapace di dominare questa fase e, anzi, pare pronto a cavalcarla pur di ricavare un profitto nel breve periodo.
Alle presidenziali austriache di dicembre il fronte liberale e progressista riuscì a ricompattarsi, portando alla vittoria di stretta misura (31.036 voti di differenza tra i due) di Alexander Van der Bellen su Norbert Hofer. Van der Bellen fu preferito da chi era a favore dell’Ue, dell’inclusione, dell’integrazione; da chi era convinto che al problema dei profughi non si dovesse rispondere con nuovi muri, barriere, isolamento. Ieri sono prevalsi i contrari all’Ue, chi è per l’esclusione, chi crede che la questione dei profughi e dell’asilo si possa risolvere solo con un rigido isolamento. Coloro, e sono sempre di più, che percepiscono la propria situazione personale come minacciata.
Per questo l’Austria ci riguarda da vicino. Perché chi è abile a sfruttare le paure e le difficoltà non vive solo al di sopra del Brennero.
Riproduzione riservata