In commissione Lavoro alla Camera dei Deputati sono attualmente in discussione quattro diverse proposte di legge sul salario minimo presentate dalle opposizioni. Secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il salario minimo “rischia di creare condizioni peggiori per i lavoratori di quelle che hanno oggi”: a partire da alcuni dati sul mercato del lavoro italiano, in questo articolo cercheremo di mostrare perché non è così.
Negli ultimi trent’anni, sulla spinta delle riforme del lavoro approvate dai governi di centrosinistra e centrodestra, i salari reali in Italia sono calati del 2,9%, mentre in Germania e in Francia aumentavano di circa il 30% (dati Ocse). La povertà colpisce un numero sempre maggiore di lavoratori: i working poor, coloro che nonostante un regolare contratto non riescono a uscire dalla povertà, rappresentano l’11,8% dei lavoratori italiani secondo Eurostat. I lavoratori a termine, i cosiddetti precari, sono ormai un fenomeno strutturale: in termini assoluti il loro numero è ormai stabilmente sopra ai 3 milioni, dopo aver raggiunto il massimo storico nel marzo 2022 (3 milioni 175 mila contratti a termine, fonte Istat). Per quanto riguarda i giovani, sono sempre più quelli che emigrano (la mobilità giovanile è quasi raddoppiata negli ultimi 15 anni secondo la fondazione Migrantes) così come i Neet, coloro che non studiano, non lavorano e non seguono alcuna formazione, pari a circa 3 milioni nella fascia 15-34 anni (dati Istat ed Eurostat).
Davanti a un quadro così desolante fatto di povertà e precarietà, come potrebbe peggiorare la situazione l’introduzione del salario minimo? Come le ricerche economiche degli ultimi decenni dimostrano, è piuttosto vero il contrario, dal momento che la sua introduzione conduce a effetti positivi nel mercato del lavoro. Già nel 1994, gli economisti David Card e Alan Krueger mostravano che un aumento del 20% (da 4,25 a 5,05 dollari l’ora) del salario minimo nell'industria del fast-food degli Stati Uniti non portava a una riduzione dell’occupazione (anche grazie a questo studio Card ha vinto nel 2021 il Nobel per l’economia). A risultati simili sono giunti studi empirici effettuati in altri Paesi del G8. In Germania, ad esempio, dove l'introduzione del salario minimo ha aumentato le retribuzioni senza ridurre l'occupazione, aumentando allo stesso tempo la produttività delle imprese, riallocando i lavoratori verso quelle migliori. Effetti positivi su retribuzioni e produttività che si riscontrano anche in Brasile, un’economia a medio reddito dove il lavoro informale è più diffuso.
Perché il salario minimo non fa bene solo ai lavoratori ma a tutta l’economia? Perché le imprese hanno il potere di fissare i salari al di sotto dei livelli concorrenziali
Ma perché il salario minimo non fa bene solo ai lavoratori ma a tutta l’economia? Perché nel mercati del lavoro le imprese hanno il potere di fissare i salari al di sotto dei livelli concorrenziali. Le imprese operano cioè in un regime di monopsonio, in cui possono comprimere i salari perché sono l’unico compratore del fattore lavoro di fronte ad una vasta offerta. Imponendo salari particolarmente bassi, le imprese monopsonistiche sopravvivono a discapito di quelle più sane – e in alcuni casi più oneste – che competono innovando e investendo. L’introduzione di un salario minimo è una leva per far saltare il monopsonio, riducendo il potere delle imprese che competono sui prezzi offrendo salari artificiosamente bassi, e aumentando così al tempo stesso salari, occupazione e produttività.
L’Italia, per via della struttura del suo tessuto industriale basato su una miriade di piccole imprese, della scarsa istruzione dei lavoratori, delle “riforme” strutturali (di cui parleremo tra poco), nonché dall’assenza di politiche industriali, è un Paese in cui i mercati monopsonici sono numerosi, con gravi conseguenze non solo sull’occupazione, ma anche sulla produttività. Tra il 2010 e il 2020 la produttività italiana è infatti aumentata solo di 1,2 punti percentuali, a fronte di un incremento di 8,6 punti in Germania e Francia e di 7,8 punti in Spagna e nell’area euro (dati Eurostat). Il nostro Paese beneficerebbe forse anche più di altri dell’introduzione di un salario minimo.
Veniamo dunque alle “riforme” strutturali degli ultimi decenni attuate per flessibilizzare il mercato del lavoro, che lungi dal rendere più dinamica e competitiva l’economia italiana l’hanno danneggiata e resa più fragile, oltre a ridurre i salari e i diritti dei lavoratori. Un recente articolo empirico mostra che il decreto Poletti del 2014, acclamato ai tempi come “testo di legge storico” da alcuni commentatori, non ha affatto contrastato la disoccupazione, ma ha solo precarizzato il mercato del lavoro, favorendo i contratti a tempo determinato e riducendo le conversioni in contratti a tempo permanente. Il risultato non dovrebbe sorprendere dato che non c’è alcuna evidenza empirica che mostri che una minore tutela degli occupati riduca l’occupazione. Un’altra ricerca mostra che il successivo Jobs Act del 2015-2016, riducendo le protezioni del posto di lavoro, ha ridotto la probabilità delle lavoratrici di avere figli.
Tra il 2010 e il 2020 la produttività italiana è aumentata di 1,2 punti percentuali, a fronte di un incremento di 8,6 punti in Germania e Francia e di 7,8 punti in Spagna e nell’area euro
Secondo un recente studio della Banca d’Italia, la riforma introdotta dalla legge 368/2001 ha precarizzato il mondo del lavoro, aumentando i contratti a termine a scapito di quelli a tempo indeterminato, senza aumentare il livello generale dell’occupazione. La riforma ha inoltre sfavorito i lavoratori più giovani – sia in termini di diritti che di remunerazioni – mentre ha permesso alle imprese di aumentare i profitti comprimendo i salari degli occupati. Questi risultati sono confermati da una ricerca del Fondo Monetario Internazionale, che mostra come le riforme del mercato del lavoro degli anni Novanta e Duemila hanno diminuito la stabilità dei salari, rendendoli più volatili, e aumentato la loro disuguaglianza. Non solo: questi interventi possono aver contribuito al rallentamento della produttività del lavoro in Italia, ritardando l'accumulo di capitale umano delle generazioni più giovani (in termini di esperienza generale e di formazione specifica alle aziende).
L’esperienza italiana mostra quindi che flessibilizzare il mercato del lavoro fa male ai lavoratori e all’economia. Servono quindi “buone” riforme strutturali che vadano in direzione opposta, irrigidendo il mercato del lavoro e aumentando salari e diritti dei lavoratori. Un esempio è stato il decreto dignità che ha regolamentato l’utilizzo dei contratti a termine in Italia. Anche in Spagna, le buone riforme del lavoro introdotte dalla ministra Yolanda Díaz hanno scoraggiato l'utilizzo dei contratti a termine creando occupazione: secondo un recente studio della Banca centrale spagnola, in un anno, gli occupati con contratti a termine sono calati di 1,2 milioni a fronte di un aumento di 1,6 milioni di occupati stabili. La stabilizzazione di questi lavoratori ha un effetto positivo sui consumi: lavoratori con più fiducia e tranquillità rispetto al futuro possono investire e spendere di più, con ovvi effetti positivi sulla crescita economica.
Se i mercati del lavoro sono monopsonistici è necessario aumentare il potere dei lavoratori, accrescendo il ruolo dei sindacati. Infatti, le ricerche empiriche mostrano che i lavoratori riescono ad ottenere salari più elevati quando cresce la forza dei sindacati, approssimata dal numero degli iscritti. In presenza di sindacati forti, la disuguaglianza di reddito diminuisce.
Che cosa dovrebbe fare quindi l’Italia, non solo per ridare dignità e potere d’acquisto ai lavoratori, ma anche per stimolare la produttività e la crescita? Innanzitutto, introdurre un salario minimo per legge di un importo tale da scardinare i monopsoni delle imprese inefficienti che non investono. Tale salario dovrebbe essere applicato a tutti i settori, non solo a quelli dove non è in vigore la contrattazione collettiva. In secondo luogo, occorrerebbe irrigidire il mercato del lavoro, scoraggiando il ricorso ai contratti a termine e incentivando le stabilizzazioni. Tutto questo dovrebbe essere accompagnato da un rafforzamento del potere dei sindacati – ad esempio debellando i contratti pirata – il cui ruolo è fondamentale per aumentare salari e produttività.
Da ultimo, non va dimenticato che buone riforme strutturali di questo tipo possono essere realizzate senza alcun costo per il bilancio pubblico, un fattore certo non trascurabile in tempi di ristrettezze di spesa.
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