Il perdurare della pandemia, e la ricerca incessante di vaccini per contrastare le nuove varianti che si stanno diffondendo, hanno portato l’attenzione generale a concentrarsi sul dato sanitario e medico della attuale situazione di crisi.
Questo scenario, tuttavia, ha portato economisti, studiosi e persino il Parlamento europeo a interrogarsi su un tema invero mai abbandonato dalla riflessione accademica: quello del rapporto tra monopoli intellettuali, benessere e giustizia sociale.
Le tesi sono note: da un lato, vi è chi sostiene che la brevettazione delle scoperte scientifiche (in particolare nel campo medico) sia la pietra angolare della ricerca moderna, nella misura in cui solo i profitti assicurati dalla privativa industriale permettono di compensare i costi (e i rischi) della ricerca stessa. Dall’altro lato però, c’è chi osserva come i monopoli intellettuali non garantiscano necessariamente questo risultato, e che altro non siano che un meccanismo di accumulazione sproporzionata della ricchezza, e quindi un acceleratore di disuguaglianze sociali.
Quest’ultima è una tesi che, se applicata alla quotidianità, trova oggi evidenti conferme. La ricerca, ma anche la vendita, dei vaccini contro il Covid è di fatto consegnata (almeno nel mondo occidentale) a due multinazionali statunitensi (invero BioNTech, che opera con Pfizer, è di origine tedesca), i cui costi di ricerca, negli ultimi due anni imputabili alla pandemia (cioè da quando il Covid si è propagato), sono stati di gran lunga compensati dai profitti realizzati su scala globale. Del resto, l’andamento dei titoli della società sul mercato azionario è il più chiaro indice della situazione, e costituisce una conferma di questo scenario (la quotazione Nyse di Pfizer Inc restituisce un valore per azione pari a 30,77 dollari al 23 dicembre 2018, mentre uno pari a 61,25 dollari al 16 dicembre 2021).
Mentre giustamente la popolazione mondiale si interroga sulla disponibilità dei vaccini, e oramai si è quasi arresa alla necessità di rendere le dosi di richiamo stabili nel tempo (mentre è in calendario la terza dose, l’amministratore delegato di una delle due società annunciava la produzione per la primavera prossima di una nuova dose per la variante Omicron), è forse il caso di interrogarsi se l’accumulazione di ricchezza da parte di queste multinazionali possa essere sostenibile e, prima ancora, se sia accettabile.
Mentre la popolazione mondiale si interroga sulla disponibilità dei vaccini, è forse il caso di chiedersi se l’accumulazione di ricchezza da parte delle multinazionali possa essere sostenibile e, prima ancora, se sia accettabile
La letteratura sul punto ha dunque riproposto il tema del brevetto, della privativa industriale e della sua ammissibilità in tempi come quelli attuali, caratterizzati da un perdurante stato di emergenza.
Si tratta di una discussione che è destinata a rimanere viva nei mesi (e forse negli anni) a venire e su cui ancora recentemente economisti si sono espressi con visioni radicali divergenti (si rinvia alle pagine sul tema di M. Mazzucato, The Value of Everything, Penguin, 2018 e all’idea di Patented value extraction, pp. 202 e 224).
Vi è tuttavia un’altra chiave di lettura della pandemia e dei suoi rimedi, che ad oggi è rimasta sotto traccia nel confronto tra le due tesi, che potrebbe aiutare, medio tempore, a risolvere molte di quelle tensioni tra ricerca del profitto tramite brevetto e giustizia sociale: si tratta della prospettiva fiscale, e della tassazione dei proventi derivanti dal «Capitalismo dei monopoli intellettuali» (U. Pagano, Il capitalismo dei monopoli intellettuali).
La multinazionale che possiede il brevetto produce direttamente il rimedio medicale (nel caso del Covid, il vaccino) che viene venduto in esclusiva sul mercato in condizioni sostanzialmente oligopolistiche. Ad oggi è noto che una dose di vaccino costa indicativamente allo Stato 19,5 euro, ma poco si sa in merito al modo in cui si sia giunti a individuare il prezzo, né quali siano le condizionalità ulteriori allo stesso: ciò che è noto, invece, è la difficoltà di garantire una tutela vaccinale minima alle popolazioni più sfortunate ed economicamente fragili.
In alternativa, il brevetto può essere concesso in licenza a un’altra impresa autorizzata dunque a produrre il vaccino stesso (per conto della multinazionale) previa corresponsione a questa di diritti per la licenza (è affascinante in merito osservare come i corrispettivi pagati per questa possibilità vengano comunemente definiti in inglese royalties, alla stregua di pagamenti dovuti a fronte della graziosa concessione di prerogative sovrane).
I profitti così realizzati (direttamente o indirettamente) dovrebbero infine essere tassati in capo alla multinazionale, nel Paese in cui questa risiede, con ciò realizzando quel principio che noi in Italia, sulla scorta dell’insegnamento della Costituzione, definiremmo di solidarietà economica: dovere imprescindibile di ogni consociato.
Così non è. O almeno, ciò non sempre accade.
Non da ieri le grandi società multinazionali hanno sviluppato modelli di produzione (e di licenza di know how) che non solo perpetuano ingiustizie sociali nell’ottica dell’accumulazione capitalista della ricchezza, ma che distorcono anche il dovere di solidarietà economica, attraverso forme di pianificazione fiscale aggressiva, elusione fiscale o, come denuncia l’Ocse da ormai un decennio, di Base Erosion and Profit Shifting (Beps).
Il fenomeno di Beps si realizza quando, attraverso contratti, manipolazione dei prezzi o collocazione di società in Paesi a fiscalità privilegiata, gli immensi profitti realizzati sfuggono a tassazione, inverando quello scenario di «Nazioni senza ricchezza e ricchezze senza nazione» che la letteratura internazionale (E.D. Kleinbard, Stateless Income, «Florida Tx Review», 9, 699, 2011), e quella italiana, avevano immaginato fin dagli anni Ottanta del secolo scorso (AA.VV. Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Il Mulino, 1993). Non si tratta, nella pressoché totalità dei casi, di comportamenti penalmente rilevanti o di frodi fiscali, ma di pratiche commerciali e industriali particolarmente evolute che sfruttano lacune della legislazione degli Stati, oltre che il comportamento compiacente di Paesi che su queste strategie hanno fondato le loro fortune economiche.
A ben vedere, l’incredibile ammontare di profitti garantito dalla pandemia non fa altro che esacerbare quelle tensioni tra tutela della proprietà e giustizia sociale. Forse mai la proprietà è stata diritto terribile come quando sia coniugata insieme a brevetto o privativa industriale.
Può sorprendere allora, ma fino a un certo punto, che lo stesso legislatore italiano abbia per anni validato meccanismi di agevolazione della ricerca, detassando in modo significativo i profitti di questa per le società che li percepiscono, introducendo un meccanismo di discriminazione qualitativa nell’accumulazione della ricchezza (si tratta del cd. Patent Box oggetto peraltro di una recentissima rivisitazione in senso restrittivo) secondo cui chi si arricchisce con la privativa industriale deve pagare meno imposte rispetto a colui che invece opera secondo modelli tradizionali di produzione. Che fare?
Nella confusione del momento attuale, sembrano emergere poche certezze: la prima è che la situazione pandemica sarà verosimilmente destinata a durare, magari cronicizzandosi. La seconda è che il rimedio vaccinale diventerà una forma di accompagnamento alla nuova normalità, almeno negli anni a venire.
Dal punto di vista economico ciò comporterà per le società farmaceutiche direttamente coinvolte un volume d’affari probabilmente mai raggiunto prima nella storia, ipotizzando sette miliardi di potenziali clienti, con somministrazioni almeno semestrali del rimedio oggetto di privativa.
Sembra necessario che gli Stati riflettano sin da ora su un regime fiscale adeguato alla straordinaria accumulazione di ricchezza, chiamando le stesse società a un contributo fiscale più accentuato nei luoghi da cui proviene la fonte del loro arricchimento
Sembra necessario allora che gli Stati riflettano sin da ora su un regime fiscale adeguato a questa straordinaria accumulazione di ricchezza, chiamando le stesse società, senza finalità punitive o dissuasive rispetto alla loro missione, non solo a un contributo maggiore in termini assoluti, ma anche a un contributo fiscale più accentuato nei luoghi da cui proviene la fonte del loro arricchimento.
Si tratta, in buona sostanza, di spostare la tassazione dal luogo in cui risiede la multinazionale a quello dove vengono venduti i suoi prodotti.
A ben vedere, non è neppure una soluzione nuova. Da anni lo stesso principio viene ribadito dall’Unione europea per quanto riguarda un’altra categoria di multinazionali: quelle che operano nell’economia dell’internet e sul web.
Il nostro Paese, come già altri, ha introdotto temporaneamente una Web tax il cui futuro è incerto, in ragione del tentativo da parte dell’Ocse di superare le tensioni che si sono venute a creare tra Usa e Ue sul tema.
Proprio l’esperienza della Web tax e, prima ancora, della Tobin tax (quest’ultima destinata a incidere in modo selettivo sulle forme di accumulazione finanziaria della ricchezza), possono fornire un altro insegnamento: quello secondo cui, dal punto di vista fiscale, è possibile immaginare una forma di prelievo «dedicata» a determinati settori dell’economia (l’internet, il settore della finanza, …) qualora in tali contesti si avvertano delle distorsioni alle tradizionali meccaniche del profitto, e un’accumulazione anomala di ricchezza foriera di ingiustizia sociale (M. Greggi, La web tax e le sue radici costituzionali, «Quaderni costituzionali», 1/2018, p. 211).
In passato, lo stesso legislatore italiano aveva – maldestramente – inaugurato la stagione delle imposte «dedicate», mediante una forma di prelievo straordinaria – la cd. Robin Hood Tax finalizzata a colpire quei settori che, nel particolare momento storico in cui il tributo fu introdotto, stavano realizzando profitti al di fuori di ogni logica di normale dinamica del mercato (l’art. 81, co. 16, 17 e 18 d.l. 2506/08, n. 112 colpiva in particolare i colossi del settore energetico e petrolifero).
La censura della Corte costituzionale (Sentenza n.10 del 2015) che ne era scaturita aveva riguardato aspetti applicativi dell’imposta, non la sua introduzione in linea di principio.
L’ingiustizia sociale determinata dunque da un impiego dei brevetti (e un’accumulazione monopolistica, come è stato osservato) può dunque trovare un rimedio, almeno nel breve periodo, nello strumento fiscale.
Nelle negoziazioni con le multinazionali titolari dei brevetti dovrebbero essere allora presi in considerazione, da parte degli Stati, non solo il prezzo per unità di prodotto ma anche la necessità che quel prezzo sconti, per così dire, la partecipazione alle pubbliche spese nel territorio che garantisce la ricchezza per l’acquisto del vaccino, e che ha un diritto a un suo reimpiego in chiave distributiva e perequativa.
D’altro canto, non si vede perché la funzionalizzazione della proprietà in chiave sociale, postulata dalla Costituzione, non possa trovare attuazione per il tramite delle imposte, nella misura in cui proprio la tassazione dei profitti derivanti dal monopolio dell’idea garantisce il giusto equilibro tra valorizzazione del contributo individuale alla ricerca (e la sua remunerazione) e l’interesse collettivo.
Si tratta di un’occasione da non perdere se non si vuole consegnare alle nuove generazioni un mondo magari più sano, ma ancora più ingiusto di quello attuale.
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