A meno di una settimana dal voto legislativo più incerto e allo stesso tempo più decisivo della storia della V Repubblica, spazio agli “apprendisti stregoni”. Ossia a coloro che sembrano in grado di delineare scenari sicuri. A dominare però sono incertezza e caos ed è dunque opportuno non lanciarsi in giudizi affrettati.
Uno tra i pochi dati che non dovrebbe essere smentito riguarda la partecipazione al voto del prossimo 30 giugno. Rispetto alle legislative di due anni fa, alle quali aveva votato soltanto il 47,5% degli aventi diritto, si dovrebbe passare a un consistente 62%. Il dato della partecipazione è decisivo quando si valutano i sondaggi. Considerato il sistema elettorale e soprattutto l’alta soglia di sbarramento (12,5% degli aventi diritto), con una partecipazione molto buona si attenuerebbe l’effetto eliminazione al primo turno e potrebbero presentarsi molti dei cosiddetti “triangolari”. In una prospettiva di questo genere diventerà decisivo il gioco delle desistenze, così come la scelta di mantenere o ritirare il candidato al secondo turno. Tutto ciò naturalmente moltiplicato per ogni singolo collegio e con candidature piuttosto univoche per il Rn, ma non altrettanto per il cosiddetto Nouveau front populaire, che rimane una coalizione di partiti. Un esempio può bastare per tutti: nei molti contesti nei quali sarà eliminato dopo il primo turno sia il candidato della maggioranza presidenziale sia quello Lr, il voto moderato, centrista, dell’elettore filo-governativo non andrà automaticamente a fare barrage républicain e comunque molto dipenderà se il candidato Nfp sarà un socialista, un ecologista o un candidato della France insoumise.
Un altro elemento che aggiunge incertezza al quadro è la brevità della campagna elettorale. Il tempo a disposizione per elaborare qualcosa che assomigli a un programma coerente non esiste. Per questa ragione Rassemblement national e Nouveau front populaire hanno puntato tutto sulla logica dell’anti-macronismo. In questa ottica il voto di fine giugno deve essere letto come un referendum sull’Eliseo. A sua volta Macron, ben lungi dal prendere le distanze dalla contesa, si sta impegnando a fondo per accreditare l’idea di un voto alla maggioranza presidenziale come baluardo da opporre alla presa di potere delle estreme, ponendo sullo stesso piano Rn e Nfp. Interessante è notare come una parte consistente dello stesso campo presidenziale – si pensi agli alleati di Horizons (piccolo partito centrista guidato dall’ex primo ministro Edouard Philippe), ma anche lo stesso numero due del governo Bruno Le Maire e ancor di più il primo ministro uscente, ma ancora in carica, Attal – stia facendo di tutto per prendere le distanze da un sempre più solo inquilino dell’Eliseo.
In uno scenario così fluido e in evoluzione, i molti sondaggi presentano una costante: nessun partito o coalizione di partiti dovrebbe ottenere la maggioranza assoluta, cioè la fatidica soglia di 289 eletti. Anche nelle più rosee aspettative per il Fn o per il Nouveau front populaire si tratterebbe di maggioranze solo relative. Per le forze della maggioranza presidenziale (uscente), tale ipotesi sembra altresì impossibile. Insomma, si passerebbe dall’attuale Assemblea nazionale a maggioranza relativa macroniana a una a maggioranza relativa del Rn o, ipotesi meno accreditata, a maggioranza relativa del Nouveau front populaire.
Di fronte a uno scenario di questo genere lo stallo politico sarebbe servito. Il Rassemblement national ha già chiarito di non accettare la guida di un governo di minoranza, dal momento che una mozione di censura (da votare a maggioranza assoluta) sarebbe quasi certa, coalizzando tutte le forze dell’Assemblea nazionale in funzione anti-Rn. D’altro canto un governo di minoranza a guida Nouveau front populaire ha qualche possibilità solo nel caso in cui la France insoumise non sia il partito con più eletti della coalizione. Di fronte a questa ipotesi, quasi sicuramente scatterebbe una reazione simile a quella in precedenza descritta, questa volta con tutte le forze dell’Assemblea nazionale coalizzate in funzione anti-estrema sinistra. Solo nel caso in cui la nuova Assemblea nazionale risultasse composta da tre blocchi di consistenza abbastanza simile si potrebbe pensare a un governo di minoranza, magari guidato da una figura centrista di garanzia, non sgradita alle forze della gauche di governo. Si è parlato del presidente Les Républicains del Senato Gérard Larcher (ipotesi complicata), o dell’ex segretario generale della Cfdt Laurent Berger, il quale, in una recente intervista, ha escluso di poter essere primo ministro in caso di maggioranza del Nouveau front populaire. Un esecutivo di questo genere potrebbe avere di fronte una prospettiva di un anno, cioè il tempo che, per la Costituzione, deve trascorrere prima che il presidente possa procedere a un nuovo scioglimento. Occorre aggiungere che un’ipotesi di questo genere potrebbe anche essere percorsa lasciando in carica l’attuale governo Attal, con però pochissimi margini di manovra politica, costretto a utilizzare, con ancora maggior frequenza, quell’articolo 49.3 già abbondantemente attivato dal 2022 a oggi.
Chi oggi accusa il presidente della Repubblica di aver agito in maniera impulsiva una volta preso atto dell’esito del voto europeo insiste sulla situazione caotica e di vero e proprio “blocco politico e istituzionale” che potrebbe verificarsi dopo il voto legislativo
Chi oggi accusa il presidente della Repubblica di aver agito in maniera impulsiva una volta preso atto dell’esito del voto europeo insiste sulla situazione caotica e di vero e proprio “blocco politico e istituzionale” che potrebbe verificarsi dopo il voto legislativo. Tali critiche appaiono sensate, anche se sembrano non tenere nel dovuto conto l’estrema difficoltà che avrebbe comunque dovuto affrontare lo stesso Macron, stretto tra l’insuccesso personale e quello di un governo Attal nato nel gennaio scorso con l’obiettivo di invertire la rotta rispetto all’esecutivo guidato da Elisabeth Borne. Ad ogni buon conto, Macron ha optato per un azzardo. Si può discutere quanto sia stato “calcolato” tale azzardo.
Alcuni hanno paragonato la sua scelta a quella del generale de Gaulle nel 1968. Di fronte al caos della rivolta studentesca, poi diventata sociale e politica, de Gaulle si era posto come baluardo e strumento di ritorno all’ordine, investendo su quella parte di opinione pubblica ed elettorato che aveva subito i maggiori disagi dagli eventi del maggio ’68. Il primo punto di differenza riguarda il livello di anti-macronismo che si respira nel Paese oggi, che sembra maggiore rispetto all’anti-gollismo della tarda primavera del 1968. Ma è forse un altro l’elemento davvero differente rispetto al voto anticipato del giugno 1968. Allora il Paese aveva visto emergere una nuova leadership politica, quella del giovane e pragmatico primo ministro Georges Pompidou. E non a caso la scelta del generale di non confermarlo a Matignon dopo le trionfali elezioni legislative segnerà l’inizio della definitiva uscita di scena dell’anziano presidente. Oggi all’orizzonte non si vede alcuna garanzia sul modello di quella rappresentata da Pompidou nel 1968.
Un altro possibile riferimento alla storia della V Repubblica può condurre a dieci anni dopo il voto del giugno 1968. Siamo nella primavera del 1978, si va al rinnovo previsto dell’Assemblea nazionale (che Giscard d’Estaing non aveva voluto sciogliere una volta eletto nel 1974) e si affaccia l’ipotesi di una prima possibile coabitazione, dal momento che le forze socialiste e comuniste sono maggioritarie in base ai sondaggi. Giscard, drammatizzando la situazione e soprattutto chiarendo che in caso di vittoria social-comunista avrebbe dovuto scegliere come primo ministro una personalità dell’opposizione e questa avrebbe guidato un esecutivo con poteri fissati dalla Costituzione, riesce a mobilitare l’elettorato giscardiano e gollista in poche settimane, ottenendo addirittura la maggioranza assoluta. Il paesaggio politico francese non era però frammentato come quello attuale e soprattutto, seppur nella forma della cosiddetta quadriglia, esso era riconducibile a una logica bipolare. Di quel bipolarismo oggi resta poco o nulla e la stessa drammatizzazione in funzione anti-Rn, ma anche anti-Lfi, non sembra alla portata dell’inquilino dell’Eliseo.
E qui si può aggiungere una ultima ma non per questo trascurabile considerazione. Emmanuel Macron è il simbolo, insieme a Marine Le Pen, della destrutturazione del bipolarismo francese, concretizzatosi a partire dalle presidenziali del 2017. Oggi, nella parabola discendente del macronismo, il presidente sembra trasformarsi in colui che si immola sull’altare di una nuova ristrutturazione, a favore di uno scontro tra un polo nazional-populista rappresentato dal Rassemblement national e una sorta di nuova gauche plurielle (modello Jospin nel 1997 ma non certo a trazione socialista come lo era quella), che risponde all’evocativo nome di Nuovo fronte popolare. Occorre anche in questo caso essere cauti. In realtà l’azzardata e cinica decisione di sciogliere l’Assemblea nazionale presenta anche una parte (forse difficile da individuare, ma comunque presente per chi scrive) di realismo. Marine Le Pen, infatti, non ha avuto il minimo tempo per capitalizzare il suo successo alle europee e rischia oggi o di trovarsi Jordan Bardella a Matignon (un competitor in più per la corsa presidenziale del 2027) o di dover gestire un complicatissimo governo minoritario. Allo stesso modo Raphaël Glucksmann, novello ricostruttore della gauche di governo la sera del 9 giugno, si ritrova a svolgere un ruolo di comparsa all’interno di una coalizione che ha visto rinascere la France insoumise e insieme a questa tutto l’hollandisme, compreso lo stesso Hollande, che con la sua sciagurata presidenza (2012-2017) non poco ha contribuito a destabilizzare il quadro e a far emergere il duello Macron-Marine Le Pen. Insomma, i due nuovi possibili poli sono ben lungi dall’essere consolidati e dunque in grado di aprire una nuova e duratura contrapposizione lungo l’asse destra-sinistra.
Emmanuel Macron è il simbolo, insieme a Marine Le Pen, della destrutturazione del bipolarismo francese, concretizzatosi a partire dalle presidenziali del 2017
In definitiva, questo voto anticipato deve forse essere interpretato come un passaggio intermedio con vista sul 2027. Con una triplice pericolosa incognita.
Prima di tutto in questa analisi si è esclusa la possibilità di una maggioranza assoluta per il Rn. Se si dovesse verificare tale ipotesi si aprirebbe la coabitazione senza dubbio più complicata della V Repubblica, ben più della prima storica tra Mitterrand e Chirac (1986-1988), ma anche di quella lunga e comunque faticosa tra Chirac e Jospin del 1997-2002 (quella Mitterrand-Balladur del 1993-1995 fu in realtà più “morbida”, vista anche la parabola discendente di un Mitterrand fisicamente provato). A risentirne sarebbe anche il quadro europeo, con una ipotetica complicatissima gestione della coppia Macron-Bardella all’interno del Consiglio europeo e il conseguente rischio di vedere Parigi costituire, magari con l’Italia, l’Ungheria e i Paesi Bassi, minoranze di blocco su singoli decisivi provvedimenti. Non si avrebbe magari lo stallo politico-istituzionale interno, ma questo verrebbe traslato a livello continentale.
In secondo luogo, se Macron lavora per un orizzonte di medio periodo, questa resta una prospettiva all’interno della quale non potrà più svolgere un ruolo di primo piano, non potendosi ricandidare nel 2027. Chi si farà carico della creazione di una nuova “maggioranza presidenziale”? Le parole di Edouard Philippe (“lavoro per costruire una nuova maggioranza presidenziale”), ma anche quelle di Attal (“nel gennaio scorso sono stato scelto dal presidente, il 30 giugno voglio che mi scelga il Paese”) qualche indizio lo forniscono.
In terzo luogo il Paese, e più in generale ancora l’Europa, possono permettersi una campagna elettorale permanente, lunga quasi un triennio? Con una guerra ai confini orientali e importanti decisioni sul futuro dell’Ue (in termini geopolitici, di rapporti euro-atlantici, con la Cina, ma anche relativi alla difesa comune e a come finanziarla) servirebbe una chiarificazione che difficilmente le urne francesi offriranno nell’immediato. La speranza è tutta nel senso di responsabilità dell’elettorato transalpino e nell’ennesima prova di flessibilità e adattabilità delle istituzioni della V Repubblica. Potrà bastare tutto ciò?
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