Una cosa è certa, dopo le elezioni del 25 settembre: la grave sconfitta che il Partito democratico ha subito non potrà essere facilmente archiviata con il consueto richiamo alla “riflessione (auto-)critica”. È evidente che i rituali del passato non sono più credibili. Si invoca, naturalmente, come traguardo salvifico, il “congresso”: già, ma come lo si intende? Non è affatto scontato, anche alla luce delle ultime modifiche allo Statuto del partito, approvate nel novembre 2019: un testo che introduce alcune significative novità, che tuttavia rimangono ambigue e si prestano a interpretazioni diverse.

Ben venga un (vero) congresso: ma dentro il Pd, prima di lanciarsi in una bagarre ingovernabile, dovrebbero chiarirsi bene le idee su tutti i passaggi del nuovo “procedimento congressuale”. È davvero l’ultima occasione: chi ritiene che ci siano ancora spazi e reali possibilità di un rilancio di questo partito, ha il dovere di spiegare come intende svolgere questa temeraria impresa. O, al contrario, un congresso potrebbe essere la sede in cui assumere una decisione opposta: prendere atto che questo partito “non regge”, non può più andare avanti, e che è forse è meglio per tutti se ci si orientasse a una soluzione drastica, a cui accenneremo alla fine di questo nostro articolo.

Tutti sanno cos’è stato di fatto, fin dalle origini, il “congresso” del Pd: ossia, le “primarie aperte” attraverso cui, come si diceva nel 2008, si compie la “scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del segretario”. La più importante novità sta nel fatto che ora nello Statuto fa la sua comparsa, per la prima volta (nel 2008, era stata deliberatamente scartata dagli estensori), la parola stessa “congresso”. Il titolo di quell’articolo viene così corretto: “scelta dell’indirizzo politico mediante Congresso ed elezione diretta del segretario”. Invito il lettore ad avere un po’ di pazienza: come si sa, il diavolo sta nei dettagli. Il nuovo testo parla di un “procedimento congressuale” che si svolge in due fasi: “nella prima fase, che si conclude con lo svolgimento dell’Assemblea nazionale, si discutono piattaforme politico-programmatiche. La seconda fase consiste nel voto degli iscritti sulle candidature a segretario e nel successivo svolgimento delle primarie per la scelta del Segretario nazionale” (art. 12, c..2)

Se, nello Statuto del 2008, la prima fase era quella in cui gli iscritti potevano di fatto soltanto scremare il numero dei candidati poi sottoposto al voto delle “primarie”, ora nella prima fase si indica in modo più esplicito il momento della discussione politica, e nella seconda fase vengono considerati sia il momento del voto degli iscritti sulle candidature sia il voto finale attraverso “le primarie aperte a tutti gli elettori” (art. 12, c. 3).

Dunque, si accentua finalmente la dimensione del confronto politico interno riservato agli iscritti: era oramai chiaro, nel 2019, che ridurre il “procedimento congressuale” alla “conta” nei gazebo non permetteva alcuna vera definizione dell’indirizzo politico del partito e non dava alcuna vera occasione collettiva di discussione politica. Tutto veniva compresso nella dinamica leaderistica delle primarie. Ma si può dire che ora il nodo della connessione tra discussione e decisione venga finalmente affrontato con il nuovo testo? Non ci pare: il nuovo si sovrappone al vecchio, non lo sostituisce. Il punto di massima criticità si può cogliere in questo: la regolamentazione della “prima fase” è dettagliata, configurando un classico percorso congressuale: presentazione di “documenti politici” e “contributi programmatici”, discussione e votazione di questi documenti da parte delle assemblee di circolo, ratifica dell’Assemblea nazionale del voto espresso dagli iscritti sui vari testi (precisando che i “documenti politici sono posti al voto in alternativa tra loro”), “assunzione” (da parte dell’Assemblea nazionale) dei documenti politici che abbiano raccolto almeno il 33% dei voti e dei contributi programmatici che ne abbiano raccolto almeno il 20% dei voti. Bene, e poi?

A questo punto, c’è come un vuoto, un salto logico: improvvisamente, per così dire, vengono alla ribalta i candidati alla segreteria, di cui fino a quel momento non c’era traccia: la “seconda fase” vede ancora una volta il ritorno davanti alle assemblee degli iscritti, che stavolta devono discutere “le piattaforme presentate da ciascun candidato Segretario” e votarle (art. 12, c. 3, “seconda fase”).

Nulla si dice sul come e il quando si debba presentare la candidatura degli aspiranti segretari, né quale rapporto si instauri tra i documenti politici votati nella prima fase e le piattaforme dei candidati in questa seconda fase. Si può forse solo intuire che un certo documento politico sia, sin dall’inizio, collegato ad un “primo firmatario” che poi sarebbe il candidato naturale alla segreteria: ma questa connessione esplicita è evitata, nella formulazione del comma in questione. Come mai? Si ritiene possibile che, votati i documenti, poi i candidati segretari possano accoglierli in tutto o in parte, o sintetizzarli in una sola piattaforma (la propria)? O si ammette addirittura una possibile dissonanza (una sorta di coabitazione) tra un candidato eletto e la sua piattaforma, da una parte, e il documento politico più votato, dall’altra? Non sapremmo rispondere. Fatto sta che, dopo il risultato del voto degli iscritti, “si tengono le primarie aperte a tutti gli elettori per la scelta del Segretario nazionale, tra i due candidati più votati”(c. 3).

Per gli iscritti, una gran fatica: assemblee di circolo, voti sui documenti e sui candidati; ma poi, alla fine, la scelta finale del segretario è appaltata al concorso esterno del popolo delle primarie

Insomma, per gli iscritti, una gran fatica! Un doppio ciclo di assemblee di circolo, voti sui documenti e sui candidati; ma poi alla fine, come se nulla fosse, si ritorna al punto di partenza: la scelta finale del segretario è appaltata al concorso esterno del “popolo delle primarie”.

Come giudicare queste modifiche? La questione irrisolta rimane l’idea di democrazia a cui si è ispirato il Pd e che continua a essere sottesa alla sua “costituzione materiale”: nel Pd non ha mai prevalso, né all’inizio né in tempi recenti, un modello “normale” di democrazia rappresentativa. Se nel partito fosse stato vigente un modello di questo tipo, a un certo punto, in un qualche passaggio del testo che abbiamo sopra ricordato – facciamo un’ipotesi – si sarebbe dovuto leggere qualcosa di simile a questo: “allegati ai documenti da sottoporre al voto degli iscritti, viene presentata una lista di candidati alla carica di membro delle Assemblee provinciali, regionali e poi dell’Assemblea nazionale. Tali candidati vengono eletti in modo proporzionale sulla base del voto raccolto dalla piattaforma politico-programmatica in cui si riconoscono”. E poi, si dovrebbe aggiungere: “l’Assemblea nazionale elegge il segretario…”, ecc. ecc.

È un’idea vecchia, che somiglia troppo a quella dei vecchi congressi di partito? Sì, verrebbe da ribattere: e allora? Abbiamo sperimentato forse qualcosa di meglio? Sarebbe ora di prendere atto che l’elezione diretta del segretario (oltre tutto da parte di una platea indistinta e mutevole di generici elettori) è stata una delle cause di una legittimazione plebiscitaria della leadership che si è rivelata sempre più debole, instabile, come dimostra la caducità dei segretari che ha contrassegnato la pur ancora breve vita del Pd.

L’elezione diretta del segretario è stata una delle cause di una legittimazione plebiscitaria della leadership che si è rivelata sempre più debole e instabile, come dimostra la caducità dei segretari che ha contrassegnato la pur ancora breve vita del Pd

Come si diceva sopra, chiarire le tappe del percorso congressuale, ancor prima di buttare nella mischia i nomi dei possibili candidati, è doveroso, da parte di chi ritiene che il Pd possa ancora risollevarsi. Personalmente, ho un’altra opinione: ritengo che oramai il Pd sia irriformabile. Per riprendere una nota espressione che Bersani usò per la prima volta nel 2010, quando si tentò (un po’ timidamente e tra molte resistenze) di riformare qualcosa del primo Statuto, il “buon nome della Ditta” è oramai compromesso e piuttosto logorato. Come quando si ha a che fare con un’azienda decotta...meglio chiudere in tempo, che accumulare debiti. Vale la pena impegnarsi in uno scontro feroce...all’ultimo gazebo e in una battaglia all’ultima tessera? Meglio, molto meglio per tutti, e meno lacerante, prendere atto che questo esperimento di “partito ipotetico”, come lo definì Edmondo Berselli nel 2008 su questa rivista, non è andato a buon fine, non ha portato buoni frutti.

È senz’altro banale, ma nondimeno è sensata, l’analogia con ciò che accade (non sempre) con la crisi dei matrimoni: meglio una separazione consensuale che una guerra continua; meglio metter fine congiuntamente a una convivenza impossibile che affidarsi agli avvocati e alle carte bollate. La separazione, che nel nostro caso ci appare inevitabile, è quella tra chi vuole costruire, e sarebbe benemerito se ci riuscisse, un serio partito liberaldemocratico e chi vuole ricostruire – ricomponendo una oramai insostenibile e sconfortante dispersione a sinistra - un partito di chiara ispirazione socialdemocratica ed ambientalista. Un partito che assuma la difesa della dignità del lavoro e l’uguaglianza come asse ideale e politico della sua visione, e che avvii una lunga e difficile azione per ridare voce e rappresentanza ad interessi popolari diffusi, a ceti e gruppi sociali subalterni e al nuovo ceto medio impoverito e precario prodotto dalla crisi.

Il dramma che sta vivendo il Pd si può efficacemente descrivere attraverso le parole della politologa britannica Susan Scarrow (Beyond Party Members, Oxford University Press, 2015): «A catch-all party faces an existential crisis when it catches little», ossia un partito concepito come “pigliatutto” gioca una rischiosa partita esistenziale quando “piglia poco”. Il Pd, nato e concepito come “partito della Nazione”, si è progressivamente rattrappito nella sua capacità di rappresentanza sociale (come già scrisse Carlo Trigilia, in un articolo apparso su questa rivista subito dopo le elezioni del 2018). Al netto di tutti i possibili errori tattici e strategici commessi nel corso degli anni e, oggi, prima e durante la campagna elettorale, il voto del 25 settembre deve essere letto come il frutto estremo di un vizio originario di questo partito: la sua indefinita identità politico-culturale. E allora, ci vuole certo un “vero” congresso: un congresso che però non decida sul “nome” dell’ennesimo segretario pro tempore, ma che innanzi tutto ci dica se si ritiene che questa “crisi esistenziale” sia ancora risolubile entro i vecchi confini del partito.