Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
Il Partito democratico ha fissato le tappe del congresso, definito come il “percorso costituente del nuovo Pd”. Le polemiche si sono concentrate sui “tempi”, troppo lunghi a detta di molti: si inizia il 7 novembre e si chiude con le “primarie” il 12 marzo 2023. Diciamo subito che le perplessità che suscita questo percorso sono molte, ma quella dei tempi è una critica mal fondata: il problema non è il tempo previsto, ma il modo con cui si pensa di occuparlo.
C’erano molte attese sulle scelte che il Pd avrebbe compiuto per cercare di affrontare l’esito del voto: la soluzione che si prospetta appare deludente, incapace di suscitare quel duro e profondo chiarimento politico che, oggi, per il Pd, è oramai una sorta di conditio sine qua non per la sua stessa sopravvivenza.
Non possiamo entrare qui nei dettagli del complesso “dispositivo” approvato dalla Direzione del 26 ottobre: se ne può riassumere il senso dicendo che, da un lato, si è provato a costruire una procedura che permetta un qualche grado di “apertura” all’esterno (la “chiamata” di cui ha parlato Letta); e si è cercato anche di ampliare lo spazio destinato al dibattito politico (la discussione sui cosiddetti “nodi”); ma, dall’altro lato, si è rimasti vincolati alla logica delle “primarie aperte”, e alla fine, il nuovo segretario sarà eletto alla vecchia maniera, nei gazebo.
Tutte le norme sull’iniziale “adesione al percorso costituente” hanno una sola ratio: permettere a chi non è iscritto al partito non solo e non tanto di votare per il segretario (lo si potrebbe fare comunque, con le “primarie aperte”), ma di essere anche candidato alla segreteria. E, tuttavia, si produce una cesura netta tra la “prima fase” della discussione e quella successiva che porta poi al voto nei gazebo. Nella prima fase, si risponde alla “chiamata”, ma non si discute sulle piattaforme politiche dei futuri candidati (che entreranno in scena più tardi, entro il 22 gennaio): si dice solo che “i partecipanti saranno chiamati a esprimersi su una serie di nodi politici essenziali che dovranno riguardare i valori fondanti, la missione, la forma partito e le modalità di organizzazione dell’attività politica, la proposta politica del nuovo Pd”.
Ma chi sceglie i “nodi” da discutere? Come ci si “esprime” su di essi? Qualcuno scriverà nero su bianco delle tesi in cui i nodi sono chiaramente indicati? In pratica, sembra di capire, si discute su tutto ma non si vota su nulla, in questa prima fase. O meglio, in questa prima fase dovrebbero emergere indicazioni per la stesura di un nuovo “Manifesto dei principi e dei valori del nuovo Pd”, per sostituire la vecchia “Carta dei valori” approvata nel 2008. Ma tale nuovo manifesto non viene nemmeno sottoposto alla discussione e al voto dei partecipanti: a redigere il Manifesto sarà un “Comitato costituente” votato dall’Assemblea nazionale in carica, che “recepisce le indicazioni provenienti dai partecipanti al percorso costituente”, e che è “composto da personalità iscritte e non iscritte al Pd, rappresentative del mondo del lavoro, delle professioni, dell’impresa, della cultura, dell’università e della ricerca, dell’associazionismo, dell’innovazione sociale e ambientale, delle amministrazioni locali, composto secondo criteri di parità di genere, equilibrio generazionale e pluralismo politico”.
Si tratta di una scelta davvero singolare: poiché non ci sono documenti da votare nella prima fase, questi “saggi” devono, per così dire, saper distillare, grazie alle proprie virtù e al proprio sapere, il senso profondo del dibattito precedente. Già, ma sulla base di quali orientamenti? Cosa accade se, tra quelle “indicazioni”, ci sono posizioni discordanti? Come si fa a scegliere quelle “buone”? E quali sono le idee di questi Ottimati, e su quali basi li sceglie il segretario (dopo aver “sentito” tutti quelli che c’è da sentire)?
Dopo anni di vuoto, le mozioni dei candidati potranno dare una risposta a tutti i nodi, quelli veri, che il Pd ha di fronte? C’è da dubitarne fortemente
L’arcano poi si scopre quando tra i criteri di composizione del Comitato è indicato anche “il pluralismo politico”: è evidente – non siamo ingenui – che qui si tratta di tener conto di tutte le correnti che ci sono nel Pd; o forse, a essere benevoli, di inserire personalità che siano espressione dei diversi orientamenti di una cultura democratica. Ma essere espressione di un “mondo” sociale, di per sé, non vuol dire nulla: che “Manifesto” potrà mai venir fuori da tutto questo? Nel migliore dei casi, un testo generico, buono per tutti gli usi, visto che non si deve scontentare nessuno e che si deve rispettare il “pluralismo”! L’apoteosi del “ma anche”... Ma il pluralismo (quello vero) lo si sarebbe potuto rispettare benissimo in altro modo se, fin dalla “prima fase”, si fosse permessa la presentazione di documenti politici anche solo diversi, non necessariamente contrapposti, che i partecipanti al percorso avrebbero potuto utilmente discutere e confrontare e su cui alla fine votare. E perché mai affidare la stesura del nuovo “Manifesto”, una cornice comune di valori e di principi, a un simposio di saggi, non si sa bene come e quanto legittimati, e non proporre invece un testo iniziale, emendabile, redatto da una qualche commissione, e discusso e approvato dagli iscritti e dagli aderenti? Serve a qualcosa tutto questo? A cosa conduce tutta questa impalcatura?
Ma andiamo avanti. Dopo questa prima fase di intenso (potremmo dire, ironicamente) brainstorming, si riunisce il 22 gennaio, una “Assemblea nazionale costituente” (sulle cui modalità di elezione ancora non si dice nulla, demandando il compito a una riunione della Direzione nazionale del partito da tenersi il 16 dicembre), che approva il nuovo Manifesto e approva il Regolamento congressuale. Dunque, dopo aver tanto discettato sui “nodi” e sui “valori”, si giunge a parlare di “cose serie”, si va alla sostanza di tutta la faccenda: decidere su chi ha il potere di decidere.
Il Regolamento fissa i termini per la presentazione delle candidature alla segreteria (28 gennaio) e, successivamente, entro il 26 febbraio, gli “iscritti” discutono e votano le piattaforme dei candidati. I due candidati più votati, poi, il 12 marzo, saranno sottoposti all’ordalia dei gazebo (dove si recheranno al voto, evidentemente, le persone più svariate, gran parte delle quali certamente non ha partecipato in alcun modo alla fase precedente di dibattito “costituente”). E qui c’è un punto molto delicato: al voto per la selezione dei primi due candidati partecipano gli “iscritti” veri e propri, ma anche tutti coloro che (c. 6 dell’Art. 1), in quanto “partecipanti al processo costituente, acquisiscono lo status di iscritti al nuovo Pd nel momento in cui partecipano alle operazioni di voto”, ma anche – si noti bene – “all’atto della presentazione o della sottoscrizione di candidature al congresso”. Quindi, c’è qui una novità: quanti hanno risposto alla prima “chiamata” (per la quale bastava sottoscrivere l’appello alla partecipazione, senza bisogno di iscriversi al partito) hanno ora la possibilità di trasfigurarsi, per così dire, in “iscritti” e votare al pari degli altri sulla prima rosa di candidati (e non solo al ballottaggio finale “aperto”), ma anche di essere essi stessi candidati.
Questa road map congressuale appare piuttosto bizantina, o labirintica, ma se ne può cogliere facilmente la ratio: una logica di auto-protezione del ceto politico che controlla il partito. Sembra che nel Pd di oggi facciano di tutto per ridare lustro al vecchio Michels e alla sua “ferrea legge delle oligarchie”. Le vistose incongruenze, le stranezze persino, di questo documento, non nascono certo da una particolare imperizia; piuttosto, sono il frutto della paura di un confronto politico “senza rete” e dal prevalere delle logiche interne di auto-conservazione dei gruppi dirigenti.
Ma perché mai il Pd è così inchiodato, ingabbiato, in questa concezione delle “primarie”? Perché non si è mai riuscito a ridiscuterne?
Un ginepraio, in cui il Pd si è cacciato, e non da ora; e da cui non sembra in grado proprio di uscire. E non ci si può non chiedere: ma perché mai il Pd è così inchiodato, ingabbiato, in questa concezione delle “primarie”? Perché non si è mai riuscito a ridiscuterne? Perché, se ogni tanto qualcuno solleva anche solo una timida riserva, viene subito investito dall’accusa di “lesa identità” del partito?
La risposta non è difficile: questo “attaccamento” a un modello che nel tempo si è rivelato fallimentare, e che non si è riusciti mai veramente a correggere, non è il frutto di una particolare perversione masochista. Nasce dal fatto che oramai questo modo di selezionare i gruppi dirigenti è profondamente connaturato alle dinamiche del potere interno al partito: è in questo modo che si controlla il partito. I candidati-segretario contrattano il sostegno con i capo-correnti “centrali”, questi attivano le loro filiere e, infine, i referenti locali lavorano per mobilitare la gente che va a votare ai gazebo. Da una parte si chiacchiera dei “valori” e dei “nodi”, dall’altra poi il potere viene affidato a chi è maggiormente in grado di attivare le proprie reti di relazione. Il trionfo dell’ipocrisia: ed è una mistificazione bella e buona presentare queste “primarie” come l’apoteosi del cittadino-elettore. Non lo sono mai state (ad eccezione delle prime, quelle “per Prodi”, che non erano però primarie di partito) e lo sono state sempre meno nel corso degli anni, quando ormai la struttura correntizia del Pd è apparsa incistata nei tessuti più profondi del partito. E non si comprende perché mai Letta, nella sua relazione del 28 ottobre, da una parte abbia notato giustamente come le primarie del Pd siano sempre state una gara, per così dire, “decisa a tavolino”, senza sorprese, ma poi abbia sostenuto che questa volta sarebbe stato diverso, e che non c’è alcun vincitore annunciato. Forse, perché ancora i maggiorenti non hanno trovato gli accordi necessari; ma se poi questi accordi arriveranno, le regole certo non porranno alcun ostacolo a un esito precostituito.
Il vero dramma sta nel fatto che il Pd non riesce nemmeno a darsi regole efficaci per discutere e decidere, prima ancora di capire se poi le decisioni sono giuste o “funzionano”: anche in questa procedura si nota una disconnessione tra il momento del dibattito e quello della decisione.
E ora cosa potrà accadere? Possiamo dirlo con un gioco di parole: il Pd deve scegliere, se non vuole sciogliersi; e può accadere che “si sciolga” non perché qualcuno lo decida, ma per consunzione, o per lento deperimento. Dopo anni di vuoto, le “mozioni” dei candidati potranno dare una risposta a tutti i nodi, quelli veri, che il Pd ha di fronte? C’è da dubitarne fortemente. L’attenzione, è facile prevederlo, sarà concentrata su altro, al massimo sulle questioni più “contingenti”. Lo si sarebbe potuto evitare: bastava chiedere a tutti i potenziali candidati di presentare delle “piattaforme” o delle “tesi”, – mettiamo entro novembre – e far discutere questi testi, nero su bianco, entro gennaio o metà febbraio. Dopo di che si sarebbe potuto votare (anche, se proprio ci si tiene, con le primarie “aperte”). Ci si può chiedere perché non si è voluto o saputo scegliere un percorso più lineare e produttivo politicamente. Forse la risposta è scontata e fin troppo semplice, ma qualcuno, nel gruppo dirigente del Pd, avrebbe il dovere di fornirla.
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