Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
L’esito delle primarie del Partito democratico ha suscitato una notevole sorpresa, in particolare tra chi continua a guardare alle vicende del partito con la lente degli stereotipi. Si dovranno analizzare in dettaglio i dati: a poche ore dal voto, vorremmo qui affrontare un solo tema, che appare, dalle prime reazioni, quello più controverso. Molti sembrano scoprire solo ora con un certo scandalo quanto era perfettamente inscritto nella logica del modello originario del Pd: ossia che il voto “aperto” a tutti gli elettori potesse contraddire quello degli iscritti.
Molti analisti (e anche chi scrive, con diversi articoli apparsi su queste pagine, a partire dal 2018, poi ripresi in un libro uscito poche settimane fa) hanno notato un tratto caratteristico del modello di partito del Pd, ovvero l’assenza di confini organizzativi tra il “dentro” e il “fuori” e la debolezza degli incentivi che potevano motivare l’adesione (per riprendere alcune categorie usate da Angelo Panebianco nel suo Modelli di partito, un “classico” apparso esattamente quarant’anni fa, nel 1982). Con una domanda: perché mai iscriversi al Pd se le regole affidano un momento cruciale (l’elezione del segretario) a una platea mutevole e indistinta di elettori, che in gran parte non hanno alcun legame organizzativo con il partito stesso?
Perché mai iscriversi al Pd se le regole affidano un momento cruciale (l’elezione del segretario) a una platea mutevole e indistinta di elettori, che in gran parte non hanno alcun legame organizzativo con il partito stesso?
I dati mostrano come, nel corso dei quindici anni di vita del Pd, questo effetto “disincentivante” abbia agito pesantemente, contribuendo a produrre un continuo calo del numero degli iscritti: una dimensione organizzativa, oltre tutto, sempre più abbandonata e del tutto trascurata, trattata con noncuranza (a dir poco). All’inizio del percorso congressuale non erano nemmeno noti i dati sul tesseramento del 2020 e del 2021, e si parlava genericamente di appena 80 mila iscritti. La rincorsa congressuale ha portato poi alla “chiusura” dell’anagrafe su numeri relativamente più alti, tali da avere 150 mila votanti alla prima fase del voto nei circoli: evidente che questo fenomeno di progressivo collasso nasce dalla svalutazione delle prerogative degli iscritti, non solo quelle legate all’elezione del segretario, ma anche molte altre, tra cui i canali e le forme della partecipazione, l’assenza di luoghi e momenti di confronto e di elaborazione collettiva della “politica” e delle “politiche” del partito. Non solo: si è creata una sorta di “selezione avversa” nel profilo stesso degli iscritti, con il progressivo venir meno di adesioni motivate da ragioni politiche generali e la crescita invece di motivazioni “strumentali” o dettate dall’appartenenza a qualche filiale di potere locale, importanti specialmente per il controllo del partito periferico.
E dunque, non possiamo non chiederci: quanti sono questi iscritti, e soprattutto, dove vivono, e come hanno votato nei recenti congressi di circolo? Un dato poco noto (che il Pd ha fatto male a non divulgare) ci informa di alcune cose molto significative. La distribuzione geografica del voto degli iscritti mostra una distorsione profonda: il 39,6% ha votato nelle isole e nelle regioni meridionali; il 10,6 % nel Centro (Lazio e Abruzzo); il 15,7% nel Nord Ovest; il 5,9% nel Nord Est e il 28,2% nelle quattro ex regioni “rosse”. Non occorre qui riportare la distribuzione territoriale del voto al Pd nelle elezioni del 25 settembre per comprendere lo squilibrio profondo, l’assoluta non rappresentatività dell’attuale platea degli iscritti. Basti solo pensare che nell’area metropolitana milanese hanno votato 4.256 iscritti e in provincia di Potenza ben 4.190. Non abbiamo ancora i dati disaggregati per provincia delle primarie, ma è del tutto plausibile che rispecchierà molto più da vicino e in modo realistico l’effettiva distribuzione degli elettori del Pd. Insomma, a furia di sminuire il ruolo degli iscritti, o a farne solo dei “pacchetti” per la conquista delle cariche elettive locali, questi iscritti sono divenuti sempre meno un qualche “microcosmo” dell’elettorato più ampio del partito, ma solo un suo specchio deformato.
E allora, è davvero singolare che ora si meni scandalo perché gli “iscritti” sono stati “sconfessati”, profetizzando chissà quali sconquassi: piuttosto, si può provare a dare un’interpretazione politica di quanto accaduto. E qui potremmo dire che si è prodotta una sorta di nemesi: molti elettori del Pd (attuali, ex o solo potenziali) hanno per così dire preso alla lettera la “logica” delle primarie aperte e hanno prodotto un’ondata di opinione che ha travolto i vecchi confini. Una gigantesca “colonizzazione” del Pd, promossa da elettori mossi – probabilmente – da una pluralità di motivazioni: speranza e apprezzamento per la figura di Elly Schlein, ma insieme un grande “voto di protesta” contro un candidato, Bonaccini, percepito (a torto o a ragione) come espressione di quei gruppi dirigenti che hanno condotto il Pd alle attuali sconfortanti condizioni, dal 2014 ad oggi.
Il voto a Elly Schlein dimostra come si sia attivata una forte “circolazione extra-corporea” che ha mobilitato tutti quegli elettori a cui risultava oramai indigesta una proposta politica segnata da un non ben identificato “riformismo”, dall’identità confusa e insapore di un partito-sistema. Una mobilitazione che è stata espressione di un bisogno di radicalità che non significa “estremismo”, ma voglia di chiarezza e di nettezza. Si potrebbe anche dire che si è prodotta, spontaneamente, una massiccia operazione di “entrismo” (come la si definiva nel lessico del Sessantotto): visto che era possibile, perché non cogliere questa occasione? Invece della classica perorazione: “venite dentro” e fate la battaglia dall’interno come iscritti (appello inutile, perché iscriversi, sempre più, negli ultimi anni, ha significato solo aderire a una corrente o a una sub-corrente, non essendoci propriamente dei luoghi di confronto politico e culturale), è risuonato un altro appello: visto che è lecito farlo, “venite a votare” alle primarie e scompigliate il tavolo da gioco, rompiamo il copione che sembrava già scritto!
Naturalmente, ora inizia il difficile. E uno dei primi compiti della nuova segretaria sarà quello di avviare una riforma del partito
Naturalmente, ora inizia il difficile. E uno dei primi compiti della nuova segretaria sarà quello di avviare una riforma del partito. Risulta difficile, oggi, e sarebbe anche sbagliato, stando anche alla quantità e al profilo degli attuali iscritti, proporre una sorta di rapida riconversione, che restituisca loro, immediatamente, pieni poteri: dovrà essere un processo necessariamente graduale, che cominci innanzi tutto con il tornare a dare un senso politico all’adesione e alla partecipazione degli iscritti, che promuova e incoraggi nuove iscrizioni; o che cominci a lavorare seriamente alla creazione di quelle forme di adesione “multi-livello” che erano abbozzate nel primo Statuto del Pd e che non sono state mai implementate (ovvero la creazione di una doppia cerchia organizzativa, quella degli iscritti e quella dei “sostenitori/simpatizzanti”, che possano essere coinvolti, oltre che nei momenti elettorali, anche in altre fasi della vita del partito, con elenchi certificati e revisionati ogni sei mesi).
Il vero nodo critico non sarà tanto quello della riforma delle “primarie aperte”, così come sono ora concepite, ma della creazione di un modello di democrazia interna propriamente definibile come rappresentativa e deliberativa, che consenta la formazione di vere e distinte aree di cultura politica, “sganciando” l’elezione degli organismi dirigenti dalla dipendenza plebiscitaria dai voti ai candidati-segretario. Si tratta di un aspetto cruciale: se il Pd vuole evitare diaspore e spinte centrifughe, se vuole “tenere insieme” le sue molte anime, deve cambiare profondamente l’intero circuito della discussione-partecipazione-decisione. Occorre far sentire tutti partecipi di una decisione collettiva, legittima non in quanto affidata a un leader onnipotente, legittimato dal “popolo delle primarie”, ma perché costruita attraverso procedure democratiche interne di discussione e partecipazione. C’è da sperare (e da confidare, stando alle prime mosse e allo stile che la nuova segretaria ha fin qui proposto) che Elly Schlein sappia ascoltare, che sappia rifuggire dalle sirene di un leaderismo solitario e decisionista, che sappia attivare e valorizzare tutte le risorse di intelligenza collettiva, saperi ed esperienze che la società italiana può offrire. E attrezzare un partito, anche dal punto di vista organizzativo, moderno e innovativo quanto si vuole, ma capace di esercitare quelle essenziali funzioni democratiche che un partito, degno di questo nome, deve saper svolgere e che non sono affatto, in sé, “novecentesche”.
Riproduzione riservata