A cavallo tra l’Ottocento e i primi del Novecento, nelle cancellerie europee era abitudine riferirsi al declinante Impero ottomano come al “sick man of Europe”, il malato d’Europa. Alla sua crisi contribuivano, in particolare, l’eccesso di burocrazia e la frammentazione dovuta alle rivendicazioni dei vari potentati locali.

Nonostante gli evidenti segni di disfacimento, l’Impero rimase in piedi fino agli sconquassi della Prima guerra mondiale, dopo la quale ampi territori furono spartiti tra le potenze coloniali, altri conquistarono una sofferta indipendenza nazionale, mentre il nucleo duro fu trasformato dalla leadership carismatica di Ataturk nell’odierna Turchia.

Si parva licet, il sistema politico italiano ospita da anni un Grande malato, vittima delle proprie dinamiche interne e dello strapotere dei notabili provinciali. Tutti i maggiorenti sanno che senza una riforma strutturale è destinato a cadere, molti di loro sono intimamente convinti che sia in verità già dissolto, ma nessuno è disposto a cedere la minima quota di potere derivante dalla sopravvivenza della struttura, per quanto malferme siano le sue fondamenta.

Tra le qualità che accomunano il sultano ottomano e il segretario del Partito democratico c’è (finora) il requisito che sia di sesso maschile; costituisce inoltre titolo preferenziale la sopravvivenza a una lunga serie di fratricidi. Le due esperienze storiche si distinguono invece per il fatto che l’Impero ottomano aveva alle spalle un glorioso passato plurisecolare, mentre la crisi permanente del Pd è un caso di scuola fin dalla sua fondazione.

Il disfacimento del Pd offre da anni materia fertile per la fioritura di prestigiose carriere accademiche, culturali e giornalistiche. Ancora più singolare è che molti incarichi di vertice dello stesso partito abbiano avuto origine dalla contestazione radicale delle sue dinamiche interne, del suo correntismo, delle sue vistose incapacità di rappresentanza politica. È il chiaro indicatore di un certo decostruzionismo insito nella cultura (non solo di sinistra) italiana, per cui il merito intellettuale si manifesta più nell’analisi distruttiva dell’esistente che nel tentativo di proporre nuove sintesi e prospettare scenari futuri.

Il “paradosso democratico” di un partito fragile alle urne, ma insuperabile nella capacità di assicurarsi posti di comando locali e nazionali: incapace di dotarsi di un’ideologia condivisa e convincente, ha trovato la sua ragion d’essere nell’esercizio puro e semplice della prassi di governo

È qui che si colloca il “paradosso democratico” di un partito fragile alle urne, ma insuperabile nella capacità di assicurarsi posti di comando locali e nazionali: incapace di dotarsi di un’ideologia condivisa e convincente, ha trovato la sua ragion d’essere nell’esercizio puro e semplice della prassi di governo – i cui risultati, va detto, non sono mai stati entusiasmanti, ma nemmeno troppo imbarazzanti rispetto ad altre esperienze. “Bene o male, il Partito c’era”, potrebbe essere lo slogan di tutta una classe politica.

Il “paradosso democratico” ha così generato un partito che si vorrebbe progressista nell’ideologia, ma è intimamente conservatore nella struttura e nelle procedure interne. La sua debolezza, anche propagandistica e comunicativa, non è colpa dei suoi social media manager, ma deriva dall’incoerenza tra ciò che prova a raccontare di sé e ciò che è diventato nei fatti. Parafrasando il noto proverbio anglosassone secondo cui “you can put lipstick on a pig, but it’s still a pig”, si direbbe che “un gatto persiano può anche fare gli occhi da tigre, ma resta comunque un gatto persiano”, un placido animale domestico e addomesticato.

Qualunque riflessione sulla crisi del Pd sembra non potersi esimersi dal citare, a un certo punto, la definizione dalemiana di “amalgama mal riuscito”, scolpita nelle coscienze progressiste dal lontano 2008. Non saremo da meno: non perché si tratti di un’analisi particolarmente arguta, ma perché rappresentativa del modo di auto-intendersi di un intero gruppo dirigente. La vocazione originaria del Pd era quella di forgiare e promuovere un nuovo senso comune progressista, riformista, democratico e liberalsocialista per il XXI secolo, capace di oltrepassare vetuste categorie della sinistra novecentesca.

Ancora oggi, invece, la narrazione di sé è tutta orientata dal trauma passato, da “ciò che avrebbe potuto essere e non è stato”, vincolata ai risentimenti personali di dirigenti convinti di aver subìto un danno dalla confluenza delle oligarchie – ma anche di un elettorato in media sempre più anziano che non rimprovera loro tanto la mancanza di riformismo, quanto l’incapacità di preservare una serie di diritti acquisiti spesso inconciliabili con il principio di responsabilità nei confronti delle future generazioni.

Nonostante la lunga successione di segretari (o, forse, proprio per questo, ossia per la mancanza di un progetto formativo organico e di ampio respiro), è mancata la volontà di rinnovamento e la catena di trasmissione intergenerazionale

Nonostante la lunga successione di segretari (o, forse, proprio per questo, ossia per la mancanza di un progetto formativo organico e di ampio respiro), è mancata la volontà di rinnovamento e la catena di trasmissione intergenerazionale. Nessuno slancio di generosità da parte di gruppi dirigenti che, pur avendo ricevuto tanto dalla politica, non hanno saputo né voluto coltivare successori che non ne ricalcassero pedissequamente le modalità. Ne sono una prova i tentativi velleitari ed episodici di annettere le manifestazioni giovanili a uso elettorale (vedi, su tutte, la meteora delle Sardine), così come la tendenza a prelevare giovani dalla società civile per esibirli come figurine del rinnovamento, salvo poi relegarli in ruoli del tutto secondari.

A questo si accompagna l’autentico vizio di fondo della coscienza politica del partito, vale a dire l’incapacità di digerire dosi troppo elevate di pluralismo culturale. Il pluralismo è un ospite scomodo, perché richiede la capacità di condividere la strada con persone che non hanno una visione del mondo perfettamente coincidente con la propria. È un ospite che richiede coerenza, trasparenza e accountability, ossia la capacità di rendere conto delle proprie scelte e delle relative conseguenze.

Ecco: un partito in cui gran parte delle decisioni viene assunta all’unanimità, salvo poi innescare dal minuto successivo uno stillicidio di dichiarazioni e interviste radicalmente critiche da parte degli stessi votanti, è un partito che non ha fatto i conti con la legittimità del pluralismo, con il valore corroborante del dissenso argomentato, con l’importanza di vagliare ed eventualmente integrare le opinioni diverse all’interno dei processi decisionali. È ciò che succede nei consessi sociali che non sanno liberarsi della “fallacia ad hominem” di chi non sa contestare le opinioni senza delegittimarne il sostenitore – ovvero, di chi interpreta ogni idea solo come strumento della corrente politica che la esprime.

È qui che nasce molta dell’incapacità di esercitare “soft power” sui potenziali simpatizzanti estranei alle dinamiche di partito: è fin troppo evidente che ogni proposta innovativa, ogni suggestione veramente “altra”, viene immediatamente riassorbita in un consenso di facciata, oppure inscritta e depotenziata all’interno di una qualunque delle correnti interne.

Il Grande malato, in breve, non è terminale ma soffre di due brutte allergie: al rinnovamento generazionale e al pluralismo. L’ennesimo cambio di segretario cercherà ancora una volta di mascherare i sintomi ma, senza uno slancio coraggioso di “distruzione creatrice”, sarà solo l’ennesimo passo verso il lungo tramonto di un progetto politico che, per il valore di rappresentanza che potrebbe avere, meriterebbe un altro destino.