Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
Il Pd è sotto assedio. Alla sua sinistra è insidiato dal Movimento 5 Stelle, che lo incalza su questioni redistributive e ambientaliste, mentre alla sua destra deve tenere testa al Terzo Polo, che lo sfida sui temi della crescita economica e dell’efficienza. L’attacco concentrico contro il Pd è visto con favore e sostenuto indirettamente dalla coalizione di destra-centro. Se il Pd dovesse sciogliersi o anche solo perdere il suo ruolo egemonico nel centrosinistra, questa coalizione non avrebbe di fronte a sè sfidanti politici di peso, in grado di scalzarla dal governo. Una sinistra in cui il Movimento 5 Stelle giocasse il ruolo di perno non avrebbe un programma credibile e sarebbe destinata a una sterile opposizione. Un centro-centrosinistra guidato dalla coppia Calenda-Renzi non avrebbe nessun ancoraggio popolare e risulterebbe permanentemente minoritario. Per questo la coalizione di destra-centro vede con malcelato favore il modo in cui queste due forze hanno trasformato il centro-sinistra in generale e il Pd in particolare in un campo di Agramante.
Naturalmente la logica e il buon senso vorrebbero che il partito egemonico del centrosinistra fosse un partito in grado di coniugare in modo coerente crescita, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. Sulla carta il Pd, per la sua natura e per la sua storia, dovrebbe essere questa forza.
Come mai allora non è riuscito a far passare questo messaggio? Certo, l’assenza di alleanze che potessero far vincere il centrosinistra ha avuto un effetto smobilizzatore. Inoltre, la divisione in correnti sempre più autoreferenziali e molto fameliche in posti di potere è anch’essa un’importante determinante dell’insuccesso del Pd. Ma questi fattori, per quanto importanti, spiegano solo in parte la crisi che sta attraversando il Partito democratico. A mio avviso c’è un elemento ancora più importante, legato allo iato che si è creato tra le priorità annunciate e quello che il Pd è riuscito effettivamente a realizzare. È questa disconnessione che ha allontanato progressivamente l’elettorato popolare dal partito e aumentato l’insoddisfazione dei militanti. Per ridurre questo iato e riacquistare credibilità, il Pd deve affrontare e risolvere due problemi fondamentali: il primo è retrospettivo mentre il secondo è di prospettiva.
Partiamo dal problema retrospettivo. Se il Pd vuole che il suo approccio comprensivo ai problemi del Paese sia credibile, deve fare i conti con il suo passato. Se si fa un consuntivo dei suoi quindici anni di esistenza (di cui dieci al governo), il Pd ha certamente al suo attivo una gestione oculata della politica economica. Nel periodo della crisi del debito sovrano, il suo appoggio alle politiche del governo Monti è stato essenziale per evitare l’arrivo della Troika in Italia. Così come il fatto che guidasse il ministero delle Finanze nel governo Conte II ha fornito le rassicurazioni necessarie per convincere gli altri Paesi europei a varare Next Generation Eu. Infine, il sostegno convinto all’agenda Draghi ha contribuito a far sì che il Paese si riprendesse rapidamente dallo shock della pandemia. In questi quindici anni il Pd è stato dunque un buon partito pompiere.
Se il Pd presenta un bilancio positivo nella gestione macroeconomica del Paese, non è però riuscito a far uscire l’Italia dalla stagnazione in cui si trova da più di due decenni
Se il Pd presenta un bilancio positivo nella gestione macroeconomica del Paese, non è però riuscito a far uscire l’Italia dalla stagnazione in cui si trova da più di due decenni. La massa critica delle riforme per le quali viene ricordato (nel bene e nel male) hanno avuto luogo durante il governo Renzi, come Industria 4.0, che fu una riforma che ha aiutato l’industria italiana. Tuttavia, il Pd può solo parzialmente appropriarsene perché i due principali protagonisti (Renzi e Calenda) sono scappati con la palla (copyright di Renzi). Altre riforme come quelle della pubblica amministrazione e dell’istruzione non hanno prodotto i risultati desiderati, deludendo importanti constituencies del partito. Il Jobs Act ha reso più flessibile il mercato del lavoro, adattandolo alle trasformazioni intervenute nel sistema produttivo italiano. Tuttavia, è stato anche un vulnus a tutt’oggi non rimarginato sia con i sindacati sia con una parte significativa del mondo del lavoro dipendente. Se si voleva evitare questa frattura, si sarebbe dovuto introdurre in parallelo misure vigorose volte a ridurre le diseguaglianze e a fornire tutele alle fasce più deboli della popolazione. Il bonus degli 80 euro andava in questa direzione, ma era ampiamente insufficiente. Inoltre, in alcuni momenti, il governo Renzi andò addirittura nella direzione opposta, per esempio con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una misura populista con effetti regressivi sul sistema fiscale, che indebolì la credibilità del Pd sulla questione cruciale dell’equità fiscale.
Di conseguenza, analizzando quelli che gli anglosassoni chiamano i deliverables (le cose che sono state realizzate) del Pd negli ultimi quindici anni e compariamo questi deliverables con quello che gli elettori si aspettavano da questo partito, ci rendiamo conto che molte legittime aspettative sono andate deluse. Nella pratica il Pd è stato molto più centrista e molto meno socialdemocratico (e dunque non sufficientemente attento ai bisogni e alle aspirazioni delle classi basse e medio-basse) di quanto i suoi elettori avrebbero voluto e sperato. In particolare, non è riuscito a portare a casa quasi nessuna delle battaglie contro le diseguaglianze, che purtuttavia elencava tra le sue priorità. Mentre la grande maggioranza dei suoi elettori non rimetterebbe in discussione il fatto che il Pd ha fatto bene ad agire responsabilmente al governo in un periodo estremamente travagliato, essa non è più disposta ad avvallare la politica dei due tempi, in cui transizione ecologica e riduzione delle diseguaglianze vengono rinviate sine die.
C’è poi il problema della prospettiva. Se non si vuole essere populisti nelle soluzioni che si offrono, bisogna riconoscere che far uscire l’Italia dalla palude in cui si trova richiede tempo e perseveranza. Di conseguenza, il Pd non può, al contrario di quanto fa per esempio il Movimento 5 Stelle, non porsi il problema delle riforme da attuare per far crescere di nuovo l’Italia. Non è che se si ridistribuiscono le risorse (“a gratis”, come afferma Giuseppe Conte) e ci si oppone a quasi tutto (per un preteso impatto ambientale), l’economia si metterà per miracolo a crescere. “L’intendance suivra” diceva Napoleone. Ma l’economia è molto più dell’intendance. Se non segue (e con il programma pentastellato, invece di seguire, indietreggia) non si va da nessuna parte.
La crescita economica è essenziale per raggiungere l’obiettivo di un Paese più equo e più civile. Il Pd deve allora dotarsi di un programma di riforme ambizioso, che costruendo sui risultati di Next Generation Eu, riporti dinamismo nell’economia italiana. I risultati di crescita conseguiti dal governo Draghi ci hanno permesso di sconfiggere il crescente pessimismo sull’inesorabile declino del Paese. Il problema è che le ricadute positive delle riforme strutturali si vedranno solo dopo anni. E qui si dovrà fare i conti con l’impazienza dell’elettorato. Vent’anni di stagnazione hanno lasciato cicatrici profonde nel tessuto sociale del Paese e molti elettori sono ormai entrati nella logica del gioco a somma zero, che li conduce o all’astensione o a votare per i partiti che promettono la protezione dei loro interessi di breve periodo. Sconfiggere la logica della somma zero e ridare speranza laddove al momento prevale il cinismo sarà un’impresa tutt’altro che facile.
Alla luce del problema retrospettivo e quello di prospettiva, come può il Pd riacquistare credibilità e riprendere l’iniziativa che gli è scappata di mano in seguito alla crisi post-elettorale?
Per tornare a essere credibile sulle questioni sociali e ambientali e recuperare così il terreno perduto tra le fasce popolari e i giovani, il Pd dovrà prendere un impegno vincolante con i suoi elettori, stabilendo per esempio un numero limitato di priorità (diciamo cinque) non negoziabili da realizzarsi nel primo anno di governo. Nel caso questo non dovesse avvenire il partito si impegnerebbe ad andare all’opposizione o a nuove elezioni. Un tale impegno vincolante avrebbe due effetti positivi immediati. In primo luogo affronterebbe il problema retrospettivo, correggendo nell’elettorato la percezione che per il partito le questioni sociali e ambientali non sono una vera priorità. In secondo luogo, porrebbe rimedio alla percezione che l’arrendevolismo programmatico del Pd è dettato anche da questioni di mero potere, di occupazione di posizioni di governo e sottogoverno. Una tale condizione può sembrare drastica, ma è difficile vedere come il Pd possa riguadagnare credibilità in assenza dell’impegno vincolante a varare in tempi brevi misure concrete. Naturalmente tali priorità dovranno essere ragionevoli.
Salario minimo e ius scholae sono due esempi di misure che presentano il vantaggio di avere un impatto certo sulla riduzione delle diseguaglianze e nel contempo di apportare un contributo moderatamente positivo alla crescita dell’economia
Penso per esempio a misure che esistono già in quasi tutta Europa, come l’introduzione del salario minimo. Va tra l’altro notato che il salario minimo risulterebbe particolarmente vantaggioso per i giovani, perché molti di loro al momento ricevono remunerazioni inferiori alla soglia che esso indica. Un’altra misura che entrerebbe bene nella lista è lo ius scholae, poiché produrrebbe un incentivo alla scolarizzazione degli immigrati e dei loro figli e favorirebbe un’integrazione effettiva che a tutt’oggi è molto meno avanzata che in altri Paesi europei. Questi sono solo due esempi di misure che presentano il vantaggio di avere un impatto certo sulla riduzione delle diseguaglianze e nel contempo di apportare un contributo moderatamente positivo all’aumento del potenziale di crescita dell’economia (altre priorità potrebbero essere il rafforzamento della protezione dei lavoratori della gig economy o la semplificazione delle procedure per le energie rinnovabili). Spetterà naturalmente agli organi dirigenti del Pd decidere se queste e/o altre misure dovranno far parte della lista delle cinque priorità. Nel caso poi che risorse addizionali fossero necessarie, un aumento della tassa di successione oltre una certa soglia di reddito (che è equa e poco distorsiva) e altre imposte progressive potrebbero essere introdotte come una delle cinque misure.
In parallelo, il Pd dovrà offrire un nuovo progetto programmatico di ampio respiro con l’obiettivo di far uscire il Paese dalla lunga stagnazione, indicando le riforme strutturali (in primis scuola, sanità, ricerca, concorrenza, transizione ecologica) che intende perseguire per affrontare le tre sfide cruciali per il Paese: crescita, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. Per evitare che si tratti di mere enunciazioni, i gruppi dirigenti del partito dovranno creare una commissione per il programma guidata dallo stesso segretario che dovrà elaborare proposte concrete (e valutare il possibile impatto, compreso l’impatto redistributivo). Queste proposte verranno discusse pubblicamente per poi venire finalizzate in una conferenza programmatica che avrà il compito di fornire un progetto coerente per il rilancio del Paese. Un tale cambio di passo rappresenterebbe un significativo spartiacque col Pd del passato, dove i bisticci identitari, gli interessi correntizi e la questione delle alleanze hanno avuto il sopravvento sulla capacità di elaborare un programma serio e coerente, capace anche di meglio definire l’identità del partito.
L’approccio qui suggerito non rimette in discussione il ruolo del Pd come partito “responsabile” a livello nazionale ed europeo. Al contrario. La sola differenza di peso è che la nuova leadership deve essere cosciente che questo ruolo non può più essere esercitato se alcune riforme sociali e ambientali non sono introdotte in parallelo. Altrimenti non solo si finisce per estinguere il partito, ma, più grave ancora, si ampliano faglie che col passare del tempo produrranno danni forse irreparabili per il futuro del Paese.
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