Il premio È giornalismo già negli scorsi anni si era fatto notare, con l’attribuzione a Rosario Fiorello, Antonio Ricci, Hal Varian di Google, quasi a sottolineare l’allargamento del campo giornalistico a luoghi e forme della comunicazione più eccentrici. Riferirsi a Google significava mostrare consapevolezza di come da anni la maggior parte delle persone s’informi attraverso i motori di ricerca e i social; aggregatori di notizie che stanno stravolgendo non soltanto le modalità di fruizione ma anche il mercato pubblicitario, assorbendo gran parte degli investimenti e obbligando a ripensare completamente la produzione. Per altri versi, anche premiare la satira di Ricci e l’ironia dell’“edicola Fiore” poteva essere considerato una bizzarra conferma dell’allargamento dei confini giornalistici. Ma arrivare a papa Francesco?

Va osservato, innanzitutto, come ad attribuire il riconoscimento sia una giuria di giornalisti di lungo corso, tutti provenienti dalla carta stampata. Il mainstream del giornalismo italiano ha scelto di attribuire valenza giornalistica alla più alta autorità religiosa del mondo cattolico che, proprio grazie al suo ruolo, rappresenta una fonte informativa di primissimo piano. Nelle motivazioni al premio la giuria sottolinea “la scelta inedita”, specificando che essa

“si inquadra perfettamente in quello che era l'obiettivo di Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Giancarlo Aneri, quando fondarono il Premio nel lontano 1995: aiutare il giornalismo ad essere più consapevole del suo ruolo di libera espressione e di contributo alla costruzione della giustizia attraverso il servizio alla verità”. Un obiettivo che oggi “si rinnova nel ritrovare il coraggio di parlare e scrivere di pace”. Per i giurati “papa Francesco interpreta, unica voce, il coraggio di usare il dialogo per dire parole di pace […] un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune più forte della vendetta […] un segnale importante per il mondo dell'informazione, in particolare per le generazioni più giovani dei giornalisti”.

Quanto dice e fa una rilevantissima fonte informativa entra così nella sempre più ampia e diversificata famiglia di atti giornalistici. Quasi a voler sottolineare ciò che gli studi sul giornalismo sostengono ormai da anni: nel mondo di oggi è sempre più difficile distinguere fra fonti, giornalisti e fruitori dell’informazione, perché tutti fanno tutto. Grazie all’ambiente digitale, le fonti hanno la possibilità di far giungere in tempo reale i propri messaggi direttamente al grande pubblico, che a sua volta può produrre informazione, direttamente, attraverso i propri profili, oppure, indirettamente, segnalando e commentando articoli e servizi delle principali testate. Una completa ridefinizione del processo informativo, guardata con sospetto dai giornalisti, preoccupati di perdere la loro centralità ed esclusività nella produzione informativa e, soprattutto, nel constatare come la distinzione fra informazione e comunicazione diventi ogni giorno sempre più labile.

L’attribuzione del premio a una personalità di primissimo piano ma certo non giornalistica potrebbe essere letta quale conferma di una crisi d’identità professionale

L’attribuzione del premio a una personalità di primissimo piano ma certo non giornalistica potrebbe essere letta quale conferma di una crisi d’identità professionale di chi riconosce come la professione sia ormai svolta anche da altri, a condizione che “la tensione alla verità e alla giustizia”, come si sottolinea nella motivazione, risulti assicurata. Tuttavia, le intenzioni dei giurati possono essere lette anche come la consapevolezza dell’esigenza di ripensare i principi di legittimazione della professione, in modo da riconoscere una nuova qualificazione al termine informazione, basata su una più adeguata riflessione sui due presupposti del lavoro giornalistico: la centralità dei fatti e la loro verifica.

Tradizionalmente, nel giornalismo si ritengono i “fatti” delle entità date. Quante volte abbiamo sentito dire “ci limitiamo ai fatti”, espressione ritenuta legittimante l’operato e, soprattutto, l’imparzialità di chi fa giornalismo. Ma il giornalismo non rispecchia la realtà - limitandosi ai fatti - piuttosto la delimita. Scegliendo quali fatti tradurre in notizia, modifica inevitabilmente lo statuto di ciascun “fatto”. La verifica del giornalista attribuisce al fatto il connotato di “realmente accaduto”; tuttavia la sua selezione non è ascrivibile alla datità, bensì risponde a un complesso processo teso a definire se c’è un accordo solido sul significato da attribuire a tale “fatto”, cioè sul grado di stabilizzazione raggiunto a livello sociale dalle interpretazioni sviluppatesi in merito, come ha spiegato molto bene Annamaria Lorusso in uno dei testi più riusciti sul concetto di post-verità (Postverità, Laterza, 2018). Un esempio cui ricorro spesso è il seguente: la mortalità infantile è un “fatto intollerabile” nelle nostre società, dove è stata progressivamente ridotta fin quasi a scomparire. Appare ancora un “fatto naturale” in realtà dove, invece, costituisce una costante quotidiana. Ne consegue che la morte di un bambino ha un più elevato valore-notizia a seconda dei contesti dove avviene, proprio in base al grado di eccezionalità rappresentato. La morte di un bambino è certamente un “fatto”, ma non diventa di per sé una notizia. Lo diventa quando si raggiunge un accordo condiviso sul suo significato.

Vogliamo credere che nell’attribuzione del premio a papa Francesco ci sia la volontà di ripensare proprio il concetto stesso di “datità dei fatti”. Certamente non per sposare la vulgata secondo cui, ormai, siamo tutti potenziali giornalisti, grazie alla facilità con cui compiamo atti che fanno informazione: ad esempio, raccontando un fatto rilevante di cui siamo stati casualmente testimoni e facendolo circolare – farlo diventare virale come si dice oggi – grazie all’ambiente digitale. Quanto, piuttosto, per sottolineare come dei professionisti dell’informazione ci sia sempre più bisogno, proprio perché siamo immersi in un mare di informazioni fra le quali è molto difficile districarsi. Tuttavia, tali professionisti devono fare riferimento a una differente epistemologia giornalistica, che non può basarsi ancora sulle vecchie retoriche del “rispecchiamento della realtà” e del “limitarsi ai fatti”.

Non trincerarsi più dietro l’ipocrita “limitarsi ai fatti”, ma spingersi a dare forma e senso alle innumerevoli informazioni che ci piovono addosso da ogni parte

Una strada l’ha indicata proprio il pontefice nel discorso con cui ha accettato il premio, sottolineando “il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono”, quella processualità di cui si è detto; evidenziando i limiti di un giornalismo incentrato sulla contrapposizione e sugli slogan e auspicando il perseguimento di logiche costruttive. Potremmo tradurre: un giornalismo che riesca a contestualizzare i fatti, a fornire loro una prospettiva che permetta ai fruitori di interpretarli con maggiore cognizione di causa. Non trincerarsi più dietro l’ipocrita “limitarsi ai fatti”, ma spingersi a dare forma e senso alle innumerevoli informazioni che ci piovono addosso da ogni parte.

La giustizia e la verità richiamate dai giurati sono termini scivolosi cui ricorrere per descrivere il lavoro giornalistico; che possiamo tuttavia considerare adatti, grazie al loro denso significato valoriale, per auspicare la diffusione di un giornalismo che sappia riprendere il volo, fornendo chiavi di lettura della complessità sociale contemporanea, superando le polemiche e le beghe quotidiane, fatte di tweet, slogan, dichiarazioni solenni che durano lo spazio di un Tg e di qualche intervista alla “gente per strada”. Se questo è lo spirito di un importante premio giornalistico al papa, ben venga.