Una delle più gravi emergenze nazionali – la non occupazione femminile – ha trovato collocazione nel Pnrr come «priorità trasversale». Da un lato, questa scelta ha una sua logica: pressoché tutte le politiche pubbliche impattano in modo più o meno diretto sul lavoro delle donne. Dall’altro lato, però, tale scelta rischia di rendere meno visibili e pressanti gli obiettivi e le misure che riguardano questo problema. O di relegare la «priorità trasversale» in seconda fila, come missione ancillare. 

Come mostra la tabella 1, nel nostro Paese lavorano circa 53 donne su 100, nelle fasce di età comprese fra 20 e 64 anni. Il primato negativo riguarda peraltro anche il tasso di occupazione totale. E va osservato che tali primati negativi non si sono prodotti di recente, sulla scia delle varie crisi e recessioni dell’ultimo quindicennio. Ce li portiamo dietro da decenni, purtroppo. È sorprendente quanto poco essi incidano sul dibattito nazionale: i problemi urgenti sono sempre «altri». 

Eppure, basterebbero alcune considerazioni elementari per comprendere la rilevanza dei deficit occupazionali. Se i tassi italiani si allineassero a quelli europei, il primo e più ovvio vantaggio sarebbe un Pil più alto. È vero che le dimensioni di quest’ultimo e soprattutto la sua crescita nel tempo non dipendono solo da quante persone lavorano, ma anche dalla loro produttività. Ma resta il fatto che se fossimo capaci di immettere nell’economia regolare qualche milione in più di lavoratori – possibilmente con le qualifiche giuste – il Pil italiano potrebbe fare un vero e proprio salto in avanti, trasformando una nostra storica debolezza in un atout (ovviamente spendibile una volta sola). I vantaggi non finirebbero qui, ovviamente. Aumenterebbero infatti le famiglie a doppio reddito, meno vulnerabili sotto il profilo socioeconomico. E probabilmente ci sarebbero ricadute positive anche sulla natalità: sappiamo che moltissime donne inattive aspirano a lavorare e che nei Paesi dove i tassi di occupazione femminile sono più elevati, lo sono anche quelli di natalità. 

Se i tassi di occupazione italiani, tra cui quello femminile, si allineassero a quelli europei, il primo e più ovvio vantaggio sarebbe un Pil più alto

I tassi di occupazione sono un efficace indicatore sommario, ma non rendono bene l’idea di che cosa potrebbe significare colmare il deficit con l’Europa, in particolare rispetto ai grandi Paesi con cui normalmente ci confrontiamo. Prendiamo il caso della Francia e proviamo a fare un po' di conti elementari sui dati assoluti. In Francia ci sono 18 milioni 740 mila donne residenti nelle fasce di età 20-64, di cui 13 milioni 156 mila occupate (70,2%). In Italia le donne in età da lavoro sono invece 17 milioni 411 mila, di cui 9 milioni 263 mila occupate (53,2%). Se l’Italia avesse lo stesso tasso di occupazione femminile della Francia, ci sarebbero 2 milioni 959 mila occupate in più.

Ma continuiamo l’esercizio. Se la nostra economia e il nostro mercato del lavoro fossero più simili a quelli della Francia, in che settori lavorerebbero questi tre milioni di donne in più? Una veloce analisi dei dati Eurostat indica che i «buchi» italiani in termini di occupazione femminile riguardano soprattutto il settore terziario: finanza e assicurazioni, commercio all’ingrosso e al dettaglio, professioni liberali. La lacuna più vistosa riguarda il settore che Eurostat e Ocse chiamano Ehw (Education, health and welfare). Si tratta di un ambito molto importante delle economie europee, data la rilevanza delle politiche sociali. In buona misura, si tratta di posti nella Pubblica amministrazione. Ma in molti Paesi giocano un ruolo sempre più preponderante – anche come datori di lavoro – le organizzazioni non profit e gli attori privati. La tabella 2 riporta alcuni dati relativi ai settori dei servizi sociali (inclusa la cura residenziale), salute e benessere e istruzione e formazione. Anche se si tratta di numeri assoluti, il divario con gli altri Paesi è intuitivamente chiaro. Nei servizi sociali e nella sanità siamo superati persino dalla Spagna, molto meno popolosa di noi.

Facciamo di nuovo un paragone ravvicinato tra Francia e Italia per quanto riguarda il comparto Ehs. Nel complesso l’occupazione femminile Ehw pesa in Francia per il 34% sul totale, in Italia per il 27%: un divario nel divario, pari al 7%. Per allinearsi al caso francese, il nostro Paese dovrebbe assorbire all’interno del settore Ehw circa 650 mila donne inattive. A occhio e croce, tenendo conto che una certa quantità dei nuovi impieghi Ehw sarebbe comunque occupata anche da uomini, diciamo che ne servirebbero circa un milione.

Il settore Ehw ha un’enorme rilevanza funzionale perché risponde contemporaneamente a tre sfide: l’aumento dei bisogni di cura dovuti all’invecchiamento demografico e dei nuovi rischi sociali connessi alla transizione post-industriale; le esigenze di conciliazione fra vita lavorativa e vita familiare; il sostegno alla natalità; la lotta alla vulnerabilità e alla povertà delle famiglie; da ultimo, la creazione di posti di lavoro. L’espansione del comparto Ehs creerebbe numerosi circoli virtuosi – anche sul delicato fronte della sostenibilità finanziaria. Per molti aspetti, costituirebbe una leva d’Archimede per modernizzare una volta per tutte il modello socioeconomico italiano.

Ci sono almeno tre riforme nel Pnrr che potrebbero dare un impulso abbastanza rapido all’espansione di questo settore. La prima è il Piano asili nido, che prevede la messa a disposizione di circa 250 mila posti per la fascia 0-6 anni. La seconda è la riforma delle politiche per la non-autosufficienza, che prevede l’espansione dei servizi domiciliari e residenziali. La terza è la riforma della medicina territoriale, basata su case e ospedali di comunità. Inoltre, nel Pnrr ci sono misure per la promozione e sviluppo del terzo settore, delle politiche di formazione e del lavoro e altre ancora. Per produrre i risultati potenziali sull’occupazione femminile, tutti questi interventi dovrebbero essere strettamente connessi alle condizioni del mercato del lavoro, dando priorità alle aree in cui c’è maggiore carenza di servizi, che coincidono quasi sempre con le aree caratterizzate da livelli più bassi di occupazione femminile. 

E qui torniamo al punto da cui siamo partiti: i limiti della priorità trasversale «parità di genere» in seno al Pnrr. La ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti ha preparato quasi un anno fa un documento che contiene una diagnosi dei problemi italiani e in cui, opportunamente, si mette al primo posto dell’agenda la sfida dell’occupazione. Pur pieno di buoni propositi e proposte, il documento riconferma l’obiettivo fissato dal Pnrr per il 2026, ossia un incremento di circa 4 punti percentuali del tasso di occupazione femminile. Secondo il documento: «in linea con l’obiettivo posto dal Pnrr, la Strategia intende contribuire all’aumento del tasso di occupazione di 4 punti percentuali, collocando l’Italia in linea con gli altri Paesi comparabili». E aggiunge che «la riconosciuta rilevanza di questo obiettivo anche nella Strategia discende dalla considerazione dei gravi effetti della crisi pandemica sul divario di genere nelle dinamiche occupazionali». 

Come si fa a sostenere che sia sufficiente un incremento di 4 punti percentuali? Sarebbero poco più di 650 mila nuove occupate, disperse fra vari comparti. Meno di un terzo di quanto servirebbe per allinearci ai livelli odierni della Francia. A quali «Paesi comparabili» si fa riferimento? Nei Pnrr della maggioranza dei Paesi sono indicati obiettivi più ambiziosi di quelli italiani in tema di occupazione femminile: probabilmente, di qui al 2026, il nostro ritardo continuerà ad aumentare. Il riferimento alla crisi pandemica suggerisce poi che la Strategia non abbia un’adeguata contezza del carattere strutturale del problema, del suo protrarsi nel tempo, soprattutto nel Mezzogiorno.

Nei Pnrr della maggioranza dei Paesi sono indicati obiettivi più ambiziosi di quelli italiani in tema di occupazione femminile: di qui al 2026 il nostro ritardo continuerà ad aumentare

La Strategia prevede l’istituzione presso il dipartimento per le Pari opportunità di un Osservatorio nazionale per l’integrazione delle politiche di genere, come organismo tecnico di supporto alla cabina di regia del Pnrr. Sul sito del dipartimento mancano informazioni su tale Osservatorio (peraltro disegnato in modo molto pletorico). Sul sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali c’è una sezione sulla parità di genere che parla poco di occupazione e una sezione sull'occupazione che parla poco di donne. Facile prevedere come andrà a finire: obiettivi poco ambiziosi, poco monitorati, poco raccordati con l’attuazione degli interventi delle altre missioni del Piano daranno luogo a realizzazioni deludenti. Sprecando anche questa volta l’opportunità probabilmente irripetibile di superare una delle trappole più micidiali per la crescita economica e il progresso sociale di questo Paese. E sprecando anche una notevole opportunità politico-elettorale: quella di mobilitare intorno all’agenda donne il sostegno delle elettrici italiane. Sappiamo che queste ultime tendono ad astenersi più degli uomini e che quando votano prestano più attenzione degli uomini ai temi sociali.  

Il titolo di questo contributo ha voluto lasciare qualche speranza, chiudendosi con un punto interrogativo. Data l’esperienza passata, i dubbi restano però legittimi. Anche riguardo – purtroppo – alla capacità di mobilitazione dal basso della società civile italiana.