Questo articolo fa parte dello speciale Un Piano per il Paese
Le note che seguono affrontano soltanto un aspetto, per quanto decisivo, della questione relativa alle disuguaglianze nel campo dell’istruzione e della formazione. Il panorama è assai più vasto di quello che tracceremo qui sommariamente e comprende tutti i segmenti dell’arco educativo e formativo, dal periodo 0-6 anni (nidi e scuole dell’infanzia) fino all’educazione degli adulti e alla formazione permanente (lifelong learning).
Una prima osservazione, di carattere ancora generalissimo, è che il sistema nella sua interezza ha bisogno di interventi volti ad arricchire per tutti la qualità dell’offerta educativa e che solo nel quadro di un innalzamento complessivo dei risultati potranno trovare spazio soluzioni equitative reali. In altre parole, non è pensabile un aumento in termini di equità pagato con l’abbassamento della qualità: si tratterebbe infatti di un inganno ottico, che lascerebbe comunque indietro chi dispone di minori mezzi.
La seconda osservazione in premessa riguarda il grado di disomogeneità del sistema, che si presenta sotto molti rispetti a pelle di leopardo. Tutti gli indicatori, come è noto, registrano disparità notevoli, sia sul piano territoriale sia su quello delle diverse lignées formative.
Che vi sia un nesso tra capitale sociale, retroterra familiare, sistema del Welfare locale e successo formativo è cosa risaputa (ma da tenere sempre presente quando si procede a innovazioni normative e soprattutto quando si erogano fondi). Esemplare è il caso dei bandi Pnrr per la costruzione degli asili nido, inevasi in molte zone del sud; meno ovvia è invece l’incidenza, in positivo o in negativo, che sull’intero sistema ha l’architettura amministrativa che lo governa (o dovrebbe governarlo).
Sotto questo profilo, il segmento della formazione professionale, ordinato da norme spesso opache e contraddittorie, stratificate nel tempo, è senza dubbio quello nel quale maggiormente si avverte la difficoltà di intervenire in modo armonico ed efficace. A ciò va sommata la molteplicità degli attori in campo e la viscosità delle attribuzioni di competenza. Vediamo.
Governare il sistema. Il dispositivo messo in atto per realizzare la governance di un sistema a più attori come quello del comparto tecnico-professionale dell’istruzione e formazione – la Conferenza Stato-regioni o la Conferenza unificata – è uno strumento debole (anche istituzionalmente: non è un organo costituzionale, i verbali non sono pubblici) che non assicura affatto lo sviluppo ordinato e omogeneo di parti essenziali dei processi. Se, nell’offerta garantita dallo Stato e dalle sue articolazioni locali, si vuole incardinare un comparto della formazione professionale, capace di affiancare strutturalmente quello dell’istruzione, occorre costruire un percorso (o, meglio, più percorsi, ma riconoscibili all’interno di una stessa filiera) verticale completo in ogni sua parte e presente su tutto il territorio nazionale.
Se si vuole incardinare un comparto della formazione professionale, capace di affiancare strutturalmente quello dell’istruzione, occorre costruire un percorso verticale completo e presente su tutto il territorio nazionale
Occorre tuttavia chiarire una cosa: sul piano normativo, non manca nulla. Dalle qualifiche triennali del sistema di Iefp (Istruzione e formazione professionale) ai diplomi professionali (quarto anno) alle passerelle, tramite i moduli brevi di Ifts fino agli Its Academy, l’ordinamento è completo. In molte regioni, tuttavia, il sistema resta monco, sia perché mancano la cultura amministrativa e l’esperienza di governo e programmazione dell’offerta, sia perché è debole o nulla la presenza di enti di formazione accreditati (o accreditabili).
Alle regioni spetterebbe, oltre alla regia territoriale e alle funzioni di accreditamento, un preciso compito politico di impulso verso gli attori sociali – sindacati, imprese, terzo settore – affinché si creino le condizioni operative (definizione dei profili professionali, integrazione dei percorsi tra istituti professionali e centri di Fp, apprendistato formativo, ricognizione dei bisogni) per fare funzionare l’intero sistema. Si può fare, come mostrano i risultati delle regioni virtuose. Ma là dove ciò non avviene, non si possono chiudere gli occhi e “lasciar fare” (anzi, non fare).
La distribuzione a pelle di leopardo della Fp regionale, sia per qualità sia per numeri, ha radici antiche, che affondano nell’inadempimento (e nell’aggiramento) della Costituzione, che affida alle regioni la competenza in materia. Nate queste, lo Stato, che nel frattempo aveva supplito con gli Istituti professionali, si è ben guardato dal cederne il governo ai nuovi enti, e questi si sono sempre ben guardati dal chiederlo.
Ciò in parte spiega il disinteresse del centro (e in generale della politica) nei confronti di una materia regionale (noi pensiamo agli Istituti professionali di Stato!) e quello di molte regioni, dove gli attori sociali sono deboli, frammentati e poco sensibili al tema (tanto ci sono gli Istituti professionali di Stato!).
D’altronde, solo l’1,7% del bilancio del Miur/Mim è destinato ai percorsi triennali di Fp, benché essi siano frequentati da 300.000 allievi (nel conto stanno anche gli alunni degli Istituti statali che nel primo triennio suppliscono alle carenze dei percorsi regionali). Nulla è riservato a questo segmento neppure nelle linee del Pnrr del settore istruzione, benché i trienni professionali siano luogo di assolvimento dell’obbligo scolastico e nonostante l’offerta di Iefp regionale, là dove è attivata, risulti molto più efficace, in termini di successo formativo e conseguimento delle qualifiche rispetto ai trienni attivati dagli Istituti di Stato. Ma anche dove il Pnrr impegna risorse cospicue su altri punti del percorso (Its), il vuoto di governance in alcuni territori mette a serio rischio l’efficacia dell’intervento. E ciò accade proprio dove maggiore è il bisogno di costruire una forte filiera formativa work based, sia per venire incontro al tessuto produttivo del territorio, sia per intercettare precocemente gli abbandoni scolastici.
Il contrasto alla dispersione e alla povertà educativa. Sembra tuttavia che tutte le energie profuse per contrastare la dispersione e la povertà educativa siano indirizzate alla prevenzione del fenomeno, che certo è importantissima. Anche le risorse del Pnrr dedicate alla riduzione dei divari e al contrasto degli abbandoni scolastici sono interamente concentrate su azioni di profilassi (orientamento e sostegno alle scuole “difficili”). In questo modo si rischia tuttavia di puntare solo su chi è ancora dentro e di perdere di vista quelli che sono usciti, ormai dati per persi. È invece fondamentale affermare che il contrasto deve agire su due fronti, quello della prevenzione e quello del recupero. I numeri degli early school leavers e dei Neet (dall’una all’altra condizione il passaggio, in molti casi, è purtroppo quasi garantito) sono troppo elevati perché non si costruiscano percorsi di seconda opportunità, che facilitino il rientro in formazione. Tutto questo può realizzarlo solo un sistema flessibile, governato dagli enti territoriali, che metta insieme formazione professionale, centri per l’istruzione degli adulti, corsi serali degli istituti tecnici e professionali, apprendistato formativo (insomma, quanto la normativa consente oggi di realizzare, a seconda delle specifiche caratteristiche di ogni territorio). Se non si aiutano le regioni (tutte) su questa strada, sarà difficile incidere davvero sul fenomeno degli abbandoni precoci e della povertà (o dovremmo dire forse dell’impoverimento) educativa.
Le risorse del Pnrr dedicate al contrasto degli abbandoni scolastici sono interamente concentrate su azioni di profilassi. In questo modo si rischia di puntare su chi è ancora dentro e di perdere di vista quelli che sono usciti
Il tema dell’Istruzione tecnica superiore. L’investimento finanziario del Pnrr sugli Its, diventati Its (Istituti tecnologici superiori)-Academy con la legge 99/2022, è di 1,5 miliardi. È in gioco l’innalzamento dei giovani in possesso di titolo terziario (oggi tra i 30 e 34 anni solo il 27% è laureato contro il 40% della media europea e dell’obiettivo 2020: ma negli altri Paesi si contano anche i titoli terziari non accademici).
L’obiettivo dichiarato è di aumentare del 100% la quota degli iscritti entro il 2025. In teoria gli Its dovrebbero aprire una possibilità di accesso agli studi tecnico-professionali secondari a studenti motivati a questa scelta (non solo quelli che “non sono da liceo”). Se la filiera è considerata di serie B fin dall’inizio, la partita è persa e anche i numeri degli Its resteranno scarsi.
Per conseguire questo risultato, l’impianto riformatore del Pnrr punta giustamente da un lato sull’orientamento, dall’altro sulla riforma degli Istituti tecnici e professionali, le cui linee sono dettate dalla legge 175/2022 di conversione del decreto “Aiuti ter” 144/2022, che rinvia a futuri regolamenti, finalizzati ad allineare i curricoli “alla domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo del Paese” (se basteranno interventi di natura regolamentare a incidere in profondità sull’adeguamento dei curricoli, lo vedremo).
Se tuttavia guardiamo alla composizione (ossia alla provenienza) degli attuali frequentanti degli Its, vediamo che il problema non è solo quantitativo. Nel 2020 non si arrivava ai 7000 iscritti per 260 percorsi attivati: 58% diplomati tecnici, 13,6% diplomati professionali, 22,6% diplomati liceali, 4% laureati. Niente arriva dai percorsi Iefp+quarto anno Ifts. Il che significa che manca una gamba del sistema. Si rafforzano in modo consistente gli Its, si interviene sull’istruzione tecnico-professionale per renderla più coerente con i bisogni del tessuto produttivo, si arricchiscono le misure di orientamento e riorientamento per i giovani scolarizzati: tutto bene, ma se non viene allestita un’alternativa che consente di recuperare chi si è perso per strada, come si possono superare i “divari territoriali”? Come vengono riagganciate le percentuali (alte ovunque e altissime nelle zone svantaggiate) di chi abbandona proprio i percorsi tecnico-professionali? Come e dove si offre una seconda opportunità a chi la scuola ha lasciato da tempo e si muove fra nullafacenza e lavoro nero?
La consistenza, la composizione sociale, le competenze, le aspettative della popolazione studentesca del comparto di istruzione e formazione tecnica di livello secondario, che dove è stato costruito riesce a intercettare, almeno in parte, anche le “utenze deboli”, sono una variabile fondamentale rispetto all’esigenza di estendere e rendere costante una domanda di formazione post diploma di tipo non accademico.
Linee di intervento possibile. Nel migliore dei mondi, si potrebbe intervenire razionalizzando definitivamente l’intero comparto tecnico-professionale, mettendo fine alla sovrapposizione tra Stato e regioni: nel mondo reale, ciò non avverrà. Quello che si può fare, è agire là dove la legislazione attuativa dei milestones del Pnrr lascia spazio a decreti e regolamenti, come accade con la legge 175/2022 sugli Istituti tecnico-professionali e l’“Osservatorio” nazionale per la riforma, e con la legge 99/2022 sugli Its.
Occorrerebbe poi intervenire su quattro fronti: 1) accompagnare i processi mirati al conseguimento dei targets del Pnrr con rilevazioni puntuali sul territorio delle carenze organizzative del sistema nel suo complesso (l’insieme dell’offerta professionale di secondo livello, compresa l’Iefp regionale); 2) una governance nazionale a più attori più stringente rispetto alle attuali Conferenze, che garantisca da un lato un rapporto costante con il Parlamento e maggiore trasparenza dei processi decisionali, dall’altro una cogenza maggiore negli impegni assunti dalle parti e strumenti efficaci di monitoraggio; 3) là dove è ancora possibile, rivedere i criteri di ripartizione delle risorse alla luce non soltanto dei bisogni presunti, ma anche della effettiva capacità di spesa e di programmazione dell’offerta formativa degli enti destinatari; 4) i ministeri dell'Istruzione e del Lavoro dovrebbero costituire, dove necessario, delle Unità di missione, con lo scopo di dar vita a patti territoriali per la formazione e il lavoro, con la partecipazione di tutti gli stakeholder, pubblici e privati, come in parte previsti – ma solo per i soggetti fragili e i Neet – dal programma Gol del Pnrr.
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