Questo articolo fa parte dello speciale Un Piano per il Paese
Si può costruire una iniziativa politica, alternativa a quella dell’attuale governo, sul Pnrr? Lo spunto per questa domanda viene da alcune recenti dichiarazioni della segretaria del Pd. Proverò ad argomentare che non solo è possibile, ma sarebbe anche doveroso. Il punto è che non è affatto semplice: e richiede sia di riflettere sul processo di formazione e di attuazione del Piano (che ho provato ad analizzare in un recente volumetto a cui necessariamente devo rinviare) sia di inquadrarne la realizzazione nell’ambito delle più generali, auspicabili, tendenze di trasformazione della società e dell’economia italiana.
Le opposizioni sono molto critiche sulla mancanza di chiarezza del governo, sui ritardi attuativi, sulla centralizzazione dei processi decisionali, sul mancato raggiungimento degli obiettivi e sul conseguente ritardo nell’incasso delle rate di finanziamento. Si tratta di temi comprensibili ma in realtà molto scivolosi. Certamente, il governo Meloni si sta caratterizzando per prese di posizione assai confuse, talora istituzionalmente sgrammaticate. Propone inappropriate valutazioni sulla struttura del Pnrr, “che non abbiamo fatto noi”, dimenticando sia che Lega e Forza Italia l’hanno approvato sia che ormai il Piano, concordato con la Commissione, è dell’intero Paese e non di questo o quel governo. Produce fiumi di parole, specie da parte del ministro responsabile, ma pochi dati e indicazioni precise. Tuttavia, la mancanza di trasparenza non è prerogativa di questo governo: tanto il Conte II quanto il governo Draghi, come ho provato a documentare, hanno avuto un atteggiamento di grande chiusura al confronto, tecnico e politico.
Inoltre, la mancata attivazione della cabina di regia politica da parte del presidente Draghi ha prodotto un processo allocativo delle risorse per gli investimenti segnato da grandi criticità: dall’assegnazione di più posti nei nidi ai comuni già relativamente forniti rispetto a quelli carenti, a un vincolo territoriale delle risorse per gli impianti per il trattamento dei rifiuti da differenziata che ha impedito il finanziamento di fondamentali progetti a Roma pur utilmente collocati in graduatoria, fino alla assai negativa decisione di assegnare le risorse per i posti letto per gli universitari in netta prevalenza a operatori di mercato. Non pare dunque la centralizzazione politica essere il problema.
Ancora, è chiaro che i ritardi nella spesa sono emersi già nel 2022 con il governo Draghi, e sono stati dovuti in misura assai significativa alla fiammata inflazionistica che ha imposto di rivedere le stime di costo di molti investimenti. Infine, è evidente che dei ben 527 obiettivi e traguardi concordati con la Commissione alcuni devono necessariamente essere riformulati e slittati nel tempo, anche a costo di rimodulare il profilo finanziario delle rate.
Una posizione politica prevalentemente ancorata all’incapacità realizzativa del governo Meloni rischia di avere il fiato molto corto
Insomma, una posizione politica prevalentemente ancorata all’incapacità realizzativa del governo Meloni rischia di avere il fiato molto corto. Si potrebbe forse partire da un altro punto di vista. Tutta la vicenda del Pnrr è di straordinario interesse proprio perché mette in luce le grandi debolezze accumulate dal nostro Paese, dalla mancanza di confronto sui possibili futuri a un dibattito politico tutto di cortissimo respiro, dalla mancanza di quadri programmatori delle grandi politiche di settore alle debolezze delle pubbliche amministrazioni, a un quadro normativo assai complesso e farraginoso. Il Pnrr, quindi, al di là dei suoi contenuti, è una straordinaria occasione per prendere coscienza di queste debolezze e provare gradualmente a superarle. Per questo, attuare il Pnrr non significa meramente deliberare le “riforme” e spendere le risorse per gli investimenti, ma usare questo processo per innescare una correzione di rotta profonda rispetto al tristissimo primo ventennio di questo secolo.
Il Pnrr, al di là dei suoi contenuti, è una straordinaria occasione per prendere coscienza delle debolezze accumulate dal nostro Paese e provare gradualmente a superarle
È in questo scenario che si possono confrontare due visioni politiche nettamente alternative. La prima, che appare sempre più chiaramente quella del governo Meloni, che rifiuta di prendere atto delle implicazioni del Piano per le complessive politiche pubbliche nazionali; anche perché preferisce conservare margini di bilancio per le sue iniziative erogatorie a favore dei gruppi che lo sostengono; e quindi si limita a prendere atto delle debolezze del Paese, ed è pronto a ridurre il Piano proprio per non affrontarle. La seconda, che potrebbe caratterizzare le opposizioni, dovrebbe invece partire dalla considerazione che non è una mera lista di riforme e investimenti che può rilanciare l’Italia, se non è accompagnata da un progressivo ridisegno del suo funzionamento. E che quindi è necessario conservare la piena ambizione del Piano proprio per far risaltare queste necessità di cambiamento. Provo a esemplificare su più punti che cosa questo può concretamente significare.
Difendere gli investimenti pubblici. Il Next generation è così importante perché rappresenta un significativo scostamento dalla fallimentare ideologia europea dell’austerità. Si passa dal mantra del deficit di bilancio pubblico e della correlata riduzione della spesa all’idea che l’Europa si rilancia tornando a investire, in larga misura attraverso investimenti pubblici. Scostamento tutt’altro che consolidato, come mostra la discussione sul nuovo Patto di Stabilità e che potrebbe essere totalmente ridiscusso dal successo delle forze di destra alle prossime elezioni europee. Il Next generation è quindi un’occasione per mostrare che tornare a una stagione di investimenti pubblici in Europa si può, specie in connessione con la trasformazione verde, e che questo può produrre sviluppo. Il Piano italiano, con la sua dimensione, è in questo senso decisivo nel quadro europeo. Per questo ne va conservata tutta l’ambizione e ne vanno difese a oltranza le componenti legate agli investimenti pubblici.
Non è una passeggiata. Implica uno sforzo poderoso di attuazione e soprattutto la necessità di continuare a cofinanziare con risorse di bilancio nazionali (il “fondo opere indifferibili”) gli scostamenti dei prezzi dovuti all’inflazione. È probabilmente questa la grande tentazione di Meloni: rinviare o cancellare investimenti, con la scusa dei ritardi, per evitare le loro implicazione sul bilancio. E su questo tema è in corso una poderosa offensiva politica da parte di Confindustria, volta a dirottare sui sussidi alle imprese la maggior parte possibile della spesa per investimenti (dimenticando che il Piano già destina alle imprese, senza contare i bonus edilizi, la straordinaria cifra di 38 miliardi). Le opposizioni potrebbero schierarsi con chiarezza, su questo tema, contro Confindustria, difendendo tutti gli investimenti pubblici del Piano.
Costruire i servizi. La freddezza di Meloni sul Piano è anche dovuta alle implicazioni che questo necessariamente ha sulle politiche correnti. Per generare servizi, e quindi sviluppo, le opere del Piano implicano in diversi casi spesa per servizi. Il caso più evidente è quello delle Case di Comunità per i servizi sanitari territoriali, che per il loro funzionamento implicano una spesa aggiuntiva di personale di circa un miliardo e mezzo all’anno, oggi non disponibile. Per questo il ministro Fitto è così tentato dal rinviarle. Ma proprio per questo le opposizioni dovrebbero difendere con forza gli investimenti previsti dal Piano: perché proprio la loro realizzazione renderà sempre più evidente la necessità di potenziare la sanità pubblica. Non è certo l’unico caso: si possono fare tanti esempi, dalle nuove tratte ferroviarie che implicano spesa per treni alla forestazione urbana che implica spese di potatura e manutenzione. Le opposizioni potrebbero schierarsi con chiarezza a favore di un potenziamento dei servizi pubblici.
Difendere la programmazione. Una delle affermazioni del ministro Fitto che destano maggiori perplessità è quella, reiterata, relativa alla circostanza che un grave difetto del Piano è quello di essere ricco di progetti di limitata dimensione economica. Si tratta di una ennesima variazione della retorica delle “grandi opere” di tradizione berlusconiana, sposata in pieno dal ministro Salvini con il mitico Ponte sullo stretto e benedetta dall’articolo del nuovo codice degli appalti che consente al governo di decidere che una singola opera sia strategica indipendentemente dal sistema in cui si inserisce. Il Pnrr, pur con tutti i suoi difetti, torna a disegnare in diversi ambiti, in primis in quello dei trasporti un approccio programmatorio di sistema, per cui i singoli interventi non valgono in sé, ma in connessione al sistema in cui sono inseriti. È evidente che questo vale anche per le reti dei servizi sociali: un nuovo nido è una opera piccolissima, ma coerente con un grande obiettivo nazionale. Un intervento nel sociale come quelli previsti nei Piani urbani integrati delle città metropolitane non conta in sé, ma come componente di un progetto di rigenerazione urbana di area. E lo stesso è vero in altri ambiti, dai rifiuti alle scuole. Alcune grandi opere sono indispensabili; tante piccole opere diffuse, ma coordinate in un disegno unitario possono essere ancora più importanti. Le opposizioni potrebbero schierarsi con chiarezza a favore della programmazione, pubblica, nazionale, delle reti di servizi.
Le opposizioni potrebbero schierarsi con chiarezza a favore della programmazione, pubblica, nazionale, delle reti di servizi
Sostenere i comuni. Questo ci porta direttamente alla questione dei comuni, soggetti fondamentali per la qualità della vita dei cittadini e per il funzionamento del sistema economico. Vittime, in modo assai più intenso nel Mezzogiorno, di politiche di austerità selettiva che ne hanno messo a rischio la capacità di erogare servizi e realizzare investimenti. Destinatari di una quota importante degli investimenti del Piano (circa 40 miliardi) i comuni italiani, nonostante le loro straordinarie difficoltà strutturali, stanno finora ottenendo risultati piuttosto positivi.
Ma questo non deve illudere. Purtroppo, non poche misure del Piano sono state messe a bando invece di essere allocate secondo criteri di necessità; e le attuali opposizioni non sono state particolarmente attive nel contrastare queste procedure. Il che rischia di penalizzare le amministrazioni più deboli, in cui le necessità di investimento sono maggiori; e anche le realizzazioni alla fine potrebbero essere a macchia di leopardo. Ma proprio questo dimostra che l’Italia non può permettersi amministrazioni comunali così deboli. Anche perché, come già ricordato, per produrre effetti di lungo periodo gli investimenti del piano devono attivare nuovi servizi (ed essere loro stessi manutenuti). Il Pnrr ci sta insegnando che serve (contrariamente a quando sostengono alcuni accaniti sostenitori del governo) un grande piano di reclutamento di personale qualificato; una complessiva revisione dei meccanismi di finanziamento dei comuni (ora prevista a regime nel 2030), anche per assicurare una maggiore equità territoriale; una politica urbana nazionale che renda le città molto meno succubi del controllo politico delle regioni. Anche culturalmente, dopo i lunghi anni della sbornia berlusconiana e renziana, appare utile indicare che l’impiego pubblico nei comuni deve tornare a essere una delle prospettive di vita e di lavoro più importanti per i giovani, con contratti e salari degni. Le opposizioni potrebbero intestarsi una battaglia di lunga lena a favore dei comuni e del loro fondamentale ruolo.
Il Sud. Sono ormai lustri che dalle attuali opposizioni non viene una riflessione strategica sul Mezzogiorno. Con il Reddito di cittadinanza (nonostante tutti i suoi difetti) il Movimento 5 Stelle aveva almeno provato a introdurre una misura di perequazione sociale e territoriale; il centro-sinistra ha da tempo “divorziato” dal Mezzogiorno. Il Pnrr ha una generale indicazione di allocazione al Sud del 40% del totale: rozza ma utile. Solo successivamente al suo varo il governo Draghi ha precisato che tale norma sarebbe dovuta valere per ogni singola misura del Piano, drammaticamente privo di indicatori di fabbisogno di infrastrutture e servizi in base ai quali orientare territorialmente la spesa. Con le attuali allocazioni, ipotizzando una loro totale realizzazione, si avranno molti interventi utili con una modesta riduzione dei divari. È questo uno dei casi più evidenti in cui il Pnrr non riuscirà a rilanciare l’Italia.
Non è affatto da escludere che il governo Meloni produca sia revisioni del Piano tali da indebolirne la portata di riequilibrio territoriale sia interventi sulle politiche di coesione che possano snaturarne ruolo e natura
Occorrerà proseguire. Da un lato, intensificando l’opposizione all’autonomia regionale differenziata, una vera e propria secessione dei ricchi che indebolirebbe molto l’intero Paese e amplierebbe ancor più gli attuali divari; e sulla quale non sono mancate profonde incertezze tanto del Pd quanto dei 5 Stelle. Dall’altro, integrando il Pnrr con le risorse, europee e nazionali, per la coesione. Il tema è molto delicato, perché non è affatto da escludere che il governo Meloni produca sia revisioni del Piano tali da indebolirne la portata di riequilibrio territoriale sia interventi sulle politiche di coesione (al momento congelate) che possano snaturarne ruolo e natura mirando al sostegno di gruppi e interessi collaterali al governo. Le stesse decisioni di riorganizzazione amministrativa del ministro Fitto rischiano fortemente di indebolire le strutture nazionali che se ne occupano. Sul tema, tuttavia, le prese di posizione in particolare del Pd sembrano di scarsa portata, tese a rivendicare il trasferimento di fondi in particolare a Campania e Puglia, dimenticando la necessità di integrare bene programmazioni nazionali e regionali. Il ministro Fitto ha fatto buon gioco nel sostenere che è indispensabile una coerenza assai maggiore fra Pnrr e fondi di coesione; salvo poi non fare nulla in concreto.
Più che rivendicare la gestione delle risorse sarebbe utile entrare nel merito. Un esempio può rendere l’idea: Svimez ha meritoriamente mostrato che non vi è purtroppo correlazione, su base provinciale, fra fabbisogni di istruzione e spesa del Pnrr a causa dei discutibili criteri adoperati del ministro dell’Istruzione del governo Draghi, tecnico di area Pd. Quel che si potrebbe semplicemente fare è usare massicciamente le risorse delle politiche di coesione per intervenire nelle aree dove i fabbisogni sono maggiori. Per le opposizioni vi è l’opportunità di tornare a proporre, nel merito, una politica di coesione coerente con il Pnrr.
La struttura produttiva del Sud. C’è un’ulteriore fondamentale questione. L’allocazione del 40% delle risorse Pnrr al Sud non è affatto garantita per i sostegni alle attività produttive. Con una chiara scelta politica, passata totalmente sotto silenzio, l’allora ministro dello sviluppo Giorgetti ha indirizzato (come documentato sempre nel libro sul Pnrr) la grande maggioranza delle risorse verso le regioni più forti del Paese. È assai probabile che questo acuisca notevolmente la polarizzazione dell’apparato produttivo italiano; ma se al Sud non si accresce la capacità di produrre sarà difficile uscire dai circoli viziosi macroeconomici. Ora, anche nell’ambito di un grande e benvenuto ripensamento europeo sulle politiche industriali, l’Italia deve dotarsi di nuova capacità tecnologica e produttiva connessa soprattutto con la transizione verde; a questo saranno indirizzate le nuove risorse del RePowerEu. Il Sud sarà il cuore delle produzioni di energie rinnovabili. Parallelamente, senza nulla togliere al resto del Paese, potrebbe diventare la localizzazione di tutta la nuova capacità tecnologica e produttiva connessa alle strutture e alle componenti per l’eolico e il solare, alle batterie, a impianti e strumentazioni per l’efficienza energetica: come nel caso della grande fabbrica di pannelli in costruzione da parte di Enel a Catania. Le opposizioni potrebbero battersi affinché tutta la nuova capacità tecnologica e produttiva connessa alla transizione verde sia realizzata nel Mezzogiorno.
Le donne. Una cosa appare certa. Che le modalità definite per assicurare una maggiore parità di genere negli appalti del Pnrr non stanno ottenendo risultati apprezzabili. Ma l’attuazione è ancora ampiamente in corso ed è possibile intervenire. Anche questo è fare politica sul Pnrr: intestarsi, dati e norme alla mano, una grande iniziativa a favore di una maggiore parità di genere.
Insomma, il Pnrr è un tornante storico del nostro Paese non solo per quel che prevede, ma anche perché, per essere davvero realizzato e produrre effetti positivi nel lungo periodo, ha profonde implicazioni sulle politiche pubbliche e più in generale sulla politica. Si è provato a esemplificarne alcune. Di queste, o di altre, sarebbe forse utile discutere.
[Questo articolo esce contemporaneamente anche sul sito di Sbilanciamoci.]
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