Sembra frivolo dedicare questo commento a un problema italiano, quando martedì ci saranno le elezioni del presidente degli Stati Uniti e questa scelta avrà ripercussioni formidabili sul resto del mondo: quante volte, con ironia amara, abbiamo osservato che se a una decisione pubblica dovessero contribuire tutti coloro che ne saranno influenzati - non è questa la democrazia? - tutto il mondo dovrebbe essere invitato oggi alla scelta tra Barak Obama e Mitt Romney! Nel numero 5/12 del “Mulino”, ora il libreria, abbiamo però dedicato una ricca sezione alle elezioni americane e personalmente, come economista, non ho nulla da aggiungere a quanto scrive Moreno Bertoldi. Se non questo, forse: chi predica la scomparsa o l’irrilevanza, oggi, delle categorie di destra e sinistra, vada a leggersi i programmi dei due candidati.
La permanenza e la rilevanza di queste categorie si nota assai meno in Italia. Non perché manchino forti rumori a destra e a sinistra nella campagna elettorale che si sta infuocando. Ma perché sono rumori confusi con altri ancor più forti, con scarsa aderenza alla realtà e dubbio rilievo sulle policies che il governo, qualunque sarà, riuscirà poi a mandare a effetto. Né vale osservare che anche nei discorsi di Obama e Romney ci sono molto populismo, retorica e demagogia, forse più che da noi. Al di sotto ci sono però scelte chiare, programmi accuratamente preparati dai loro staff. Programmi che, se i rapporti di forza scaturiti dalle elezioni lo permetteranno, verranno attuati, incidendo sui destini dell’America e del mondo. Perché da noi è diverso?
Il motivo principale, naturalmente, è che gli Stati Uniti sono il Paese egemone del villaggio capitalistico globale, quello che, in un conflitto latente con la Cina, può determinarne i principali indirizzi, quello sulle cui politiche interne meno influiscono le decisioni altrui. Politica e democrazia nazionali, largamente autonome, contro politiche e democrazie fortemente vincolate, eteronome, degli altri Paesi, anche dei più forti, per non dire del nostro. Ma questo non è il solo motivo che spiega la vacuità e l’intraducibilità del discorso politico italiano: gli altri grandi Paesi europei - costretti dall’esterno solo poco meno di noi - presentano un discorso politico più trasparente, più facilmente leggibile nei termini delle grandi categorie della politica moderna.
Perché da noi c’è questo intollerabile rumore? Non solo rumore di proposte estreme, incompatibili con i vincoli che ci ha addossato la nostra dissennatezza passata e che ora ci appaiono in forma di obblighi esterni. Ma anche e soprattutto rumore dovuto alla confusione del sistema politico, all’afasia dei partiti, alle reazioni di abili imprenditori politici che fanno leva sul disagio, l’indignazione e l’insofferenza dei cittadini. Troppa serietà, troppa tragedia, se ci appropriamo del grande monologo dell’Atto V del Macbeth e lo trasferiamo dalla vita, cui si riferisce, al nostro sistema politico di oggi: “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”. No, come aveva ben visto Flaiano, la situazione è grave ma non seria.
La difficoltà di confrontare la situazione italiana con quella di altri Paesi, anch’essi costretti da circostanze esterne molto simili, è dovuta al fatto che nel nostro si sovrappongono e si intersecano due grandi problemi. Non solo il problema comune di fare accettare in democrazia - attraverso politiche orientate più a destra o più a sinistra - una crisi economica che si preannuncia lunga e penosa. Ma anche quello di riparare, mentre naviga, una barca politica e istituzionale che si è sfasciata sugli scogli dei primi anni Novanta, che è stata male rappezzata nella Seconda Repubblica ed è poi tornata a far acqua vistosamente negli ultimi anni, dopo la grande crisi americana. E il secondo problema è più grave del primo, perché fare riforme efficaci, di destra o di sinistra che siano, esige un riformatore, un sistema politico e istituzionale che sia in grado di attribuire a un governo legittimità, coerenza ed efficacia. E poi perché questo problema (“il completamento della transizione”, come si diceva una volta) è stato sull’agenda politica per quasi vent’anni, e anche da prima, se ci riferiamo all’intera storia delle commissioni bicamerali per la riforma istituzionale, e non se ne è fatto niente. Come possa riuscirci un Parlamento eletto con una legge elettorale ancora ignota, in cui entreranno in massa i nuovi iksos grillini, e in cui i partiti più grandi, se va bene, saranno intorno al 20%, è una scommessa sulla quale nessuna persona ragionevole punterebbe un euro.
Un po’ per pudore, un po’ per viltà, i partiti, anche i loro esponenti più onesti e ragionevoli, non ne parlano proprio. Allegria, avrebbe detto il grande filosofo Mike Bongiorno.
Riproduzione riservata