Il “terzo turno” legislativo – che già nel suo primo tempo del 12 giugno aveva suscitato interesse – si è chiuso il 19 giugno: “sisma”, “passaggio storico”, “rivoluzione” sono alcune delle espressioni che i media francesi hanno utilizzato per descrivere un inedito per la V Repubblica, perlomeno in queste proporzioni.
Nel 1988 il presidente Mitterrand si trovò con una maggioranza relativa, ma non paragonabile ai 45 seggi che mancano alla maggioranza assoluta macroniana (ne mancavano 13). E inedito assoluto negli ultimi vent'anni, in cui sono stati introdotti riduzione del mandato e inversione del calendario elettorale. Un primo paradosso sembra essere proprio questo: il meccanismo pensato per evitare la coabitazione (tre in undici anni dal 1986 al 1997), ha prodotto un’Assemblea nazionale che sembra eletta utilizzando il sistema proporzionale. Anche se chi scrive è convinto che le istituzioni della V Repubblica siano sufficientemente elastiche e adattabili e grazie a tutto ciò Macron (non dimentichiamo unico presidente, se si esclude de Gaulle nel 1965, a essere rieletto pur non provenendo da una coabitazione) abbia comunque la possibilità di condurre un quinquennato di riforme, il quadro politico-istituzionale presenta alcune indubbie criticità.
Prima di tutto non può essere sottovalutato il livello patologico di astensionismo. Non si è raggiunto il clamoroso 57% del secondo turno del 2017 (record nella V), comunque il 53% abbondante dei cittadini non ha votato. Il dato forse ancor più preoccupante è osservare l’astensionismo per fasce d’età. Oltre 7 francesi su 10 di età tra i 18 e i 24 anni non si sono recati alle urne. Il dato della partecipazione sale proporzionalmente al salire dell’età, ma ancora nella fascia 25-35, solo un francese su tre ha votato. La differenza la si trova nell’elettorato senior: tra i 60 e i 69 (58% dei votanti) e oltre i 70 anni, due elettori su tre sono andati alle urne. Il segnale di sfiducia lanciato nei confronti della politica da parte delle giovani generazioni è piuttosto evidente.
Osservare l’astensionismo per fasce d’età non può che preoccupare. Oltre 7 francesi su 10 tra i 18 e i 24 anni non si sono recati alle urne
Il secondo elemento di riflessione riguarda il presidente rieletto nell’aprile scorso e ora sottoposto a questa sorta di voto sanzione, ancor prima di aver delineato le linee costitutive per il governo del Paese da qui al 2027. Se ci si astrae un attimo dal dibattito contingente e si esce dalle dinamiche di funzionamento del Parlamento, è impossibile non scorgere una evidente battuta d’arresto per Emmanuel Macron e per la scommessa lanciata in apertura al suo primo mandato (2017): governare sfruttando a pieno tutta la verticalità insita nelle istituzioni della V Repubblica, pur avendo ottenuto soltanto il 43% circa dei voti (meno di 21 milioni di voti), a fronte dei circa dieci ottenuti da Marine Le Pen, 12 milioni di astenuti e 4 milioni tra schede nulle e bianche.
Sin dalle prime parole pronunciate sulle note dell’Inno alla gioia, sotto la piramide del Louvre, Macron si era impegnato per un progetto di riforme che avrebbe dovuto allargare il suo bacino elettorale e soprattutto avrebbe dovuto far rifluire almeno una parte dei radicalismi di destra e sinistra. Un campanello d’allarme era giunto con la non esaltante, ma comunque storica, rielezione dello scorso aprile. Il voto legislativo di questo giugno suona come l’ultima chiamata e pone una seria ipoteca sul secondo mandato macroniano. Si è davvero aperto il tempo della creatività politica per l’oramai ex enfant prodige della tecnocrazia transalpina.
Il terzo elemento riguarda l’evoluzione del quadro partitico e più in profondità delle principali culture politiche del Paese. Prima di occuparsi dei veri vincitori (RN e LFI), occorre spendere due parole sui soggetti architrave dello strutturarsi storico della V Repubblica, gollisti e socialisti. Dopo l’umiliazione di aver mancato nell’ultimo ventennio per tre volte (i socialisti) e per due volte (i post-gollisti) il ballottaggio presidenziale, si trovano all’Assemblea nazionale con un numero di deputati che, sommato, costituisce un sesto dei seggi. I 61 eletti di LR e i 30 socialisti quasi eguagliano gli 89 eletti del Rassemblement National. L’istantanea forse più vivida di questa clamorosa débâcle riguarda i 18 parlamentari eletti nelle circoscrizioni parigine. La Parigi che fu di Chirac e di Delanoe, ed è oggi di Hidalgo, domenica 19 giugno non ha eletto nemmeno un deputato post-gollista o socialista: 9 deputati per la maggioranza presidenziale e 9 per la Nupes (divisi tra LFI ed ecologisti).
Accanto a questo dato, vi è poi quello relativo all’avanzata impressionante della sinistra e della destra radicali. Per evitare facili semplificazioni, occorre distinguere i due casi. Quello forse più semplice riguarda l’operazione Nupes a guida La France Insoumise e soprattutto a trazione Mélenchon. Il tribuno ex socialista ha compiuto nell’ultimo mese e mezzo due operazioni politiche di tutto rispetto. All’indomani della rielezione presidenziale ha rilanciato (lo aveva già fatto nel 2017, ma con scarso successo) la campagna per un “terzo turno” all’insegna del “Mélenchon Premier Ministre”, chiedendo cioè ai francesi una maggioranza all’Assemblea Nazionale per andare verso la quarta coabitazione della V Repubblica. Accanto a questo richiamo, ottimo per la propaganda elettorale ma con scarse possibilità di realizzazione, Mélenchon si è invece mosso strategicamente alla perfezione negoziando, con rapidità ed efficacia, il cartello elettorale a guida France Insoumise, comprendente anche socialisti, comunisti ed ecologisti. I 131 eletti sotto l’etichetta Nupes non hanno naturalmente garantito l’arrivo a Matignon di Mélenchon, ma hanno rianimato un’opposizione di sinistra al macronismo, sicuramente a trazione LFI (72 deputati). All’orizzonte però si affacciano le prime nubi per la Nupes. Come ricordato, di accordo elettorale si tratta ed è politicamente molto probabile che socialisti ed ecologisti (e anche comunisti unendosi a qualche eletto con l’etichetta divers gauche) optino per gruppi parlamentari autonomi. Un altro elemento da non trascurare è che Mélenchon non era candidato per alcun seggio parlamentare e di conseguenza La France Insoumise in primis, ma più in generale la Nupes, perdono in Parlamento quella leadership carismatica e quel magnete così fondamentale per il successo alle legislative.
Il dato relativo all’avanzata della sinistra e della destra radicali è impressionante. Ma per evitare facili semplificazioni occorre distinguere i due casi
In attesa che il quadro si faccia più definito, occorre osservare con attenzione il risultato del vero partito vincitore di questa tornata elettorale legislativa. E cioè il Rassemblement National. Quello del 19 giugno è un altro passo importante nel percorso di dédiabolisation e, più in generale, normalizzazione che Marine Le Pen sta operando da inizio XXI secolo, dopo aver marginalizzato Bruno Mégret dal partito, facendo però proprio il suo approccio politico-ideologico. Le ragioni dell’importanza del passaggio elettorale per il RN non sono soltanto nello storico numero di 89 eletti (8 eletti nel 2017), quanto nell’aver contemporaneamente mandato in frantumi due delle più potenti barriere ancora in piedi per impedire alla destra radicale di tramutarsi in un soggetto in grado di concorrere alla guida del Paese. Prima di tutto aver superato l’ostacolo del maggioritario a doppio turno, sistema elettorale avverso per un partito scarsamente coalizzabile come il RN. La seconda barriera è strettamente legata a questa. Occorrerà vedere l’evoluzione sul medio periodo, ma domenica 19 giugno la logica del “fronte repubblicano” ha agito con scarsa efficacia e, dato altresì determinante, a destra come a sinistra. Alcuni dati esemplificano bene ciò che è accaduto. L’Ifop ha mostrato che nei duelli Ensemble!-RN, i candidati della coalizione del presidente hanno ottenuto il voto solo del 31% degli elettori Nupes, l’11% ha votato RN e oltre la metà ha scelto l’astensionismo. Per l’elettorato LR, il 41% avrebbe scelto il candidato di Ensemble! e il 26% quello del RN. La logica della “barriera repubblicana” sembra infrangersi a destra ma ancor di più a sinistra (Specularmente uno studio Harris Interactive ha mostrato che nei 59 duelli Nupes-RN, i votanti per il candidato Ensemble! al primo turno, al secondo al 48% si sono astenuti, al 18% hanno votato il candidato RN e solo al 34% hanno votato quello Nupes). Vi è un dato forse ancora più esplicativo. Le circoscrizioni che presentavano un duello Ensemble!-RN erano 109, 56 sono state vinte dalla maggioranza presidenziale e 53 dal RN. In 50 di queste ultime, il candidato di Marine Le Pen era già in vantaggio dopo il primo turno. Nonostante questa situazione, non vi è stata alcuna “mobilitazione, né reazione” per impedire la vittoria e anzi in un quarto di queste stesse circoscrizioni l’aumento di voti è stato più alto per il candidato del RN, rispetto a quello macroniano.
Si potrebbe infine aggiungere che il RN non solo è oramai radicato nelle sue zone di forza tradizionali (il Nord, l’Est e l’area mediterranea), ma pare avviato verso un’erosione anche di quell’ovest sino ad oggi “terra di missione”, impossibile da conquistare (i successi in Gironda costituiscono una novità di notevole rilievo). Marine Le Pen, all’ingresso dei deputati RN all’Assemblea nazionale (età media bassa e nessuna esperienza in Parlamento), è parsa consapevole di quanto questa “parlamentarizzazione” del partito possa costituire un passaggio decisivo nel processo di costruzione di una credibilità nazionale, per il partito e per la sua leader, che potrebbe regalarsi una quarta chance nel 2027.
In un quadro così delineato si possono aggiungere poche considerazioni conclusive, anche alla luce del breve ma significativo intervento televisivo del presidente Macron, prima dichiarazione ufficiale al Paese dopo il doppio turno legislativo. Rispetto alla possibilità che il sistema della V Repubblica viri verso una “deriva in stile IV Repubblica” (rilanciato da numerosi commentatori), l’astrazione può anche essere brillante, ma poco probabile. Il quinquennato ha ulteriormente “presidenzializzazato” il sistema. Il Presidente, anche dopo questo voto legislativo, può continuare ad essere il centro propulsore dell’iniziativa, a patto che torni al centro del dibattito politico.
Questo avvio di mandato sta vivendo sospeso in una sorta di contraddizione: il presidente con il mandato ridotto a cinque anni non può limitarsi a trattare le grandi linee di tendenza, lasciando al Primo ministro la politica corrente. Tutto ciò genera eccessiva verticalizzazione. Il voto di domenica 19 giugno è una potenziale correzione di questa “patologia” che però può sortire l’effetto opposto, cioè consegnare nelle mani del presidente anche la gestione diretta delle differenti maggioranze parlamentari a seconda dei provvedimenti da approvare.
In fondo Macron, nemmeno troppo tra le righe, ha detto questo al Paese nella sua breve allocution. Ha ricordato di essere portatore di una legittimazione diretta, ottenuta il 24 aprile. Ha poi ribadito di aver colto il messaggio delle legislative. Ha però concluso che da un lato i tre blocchi rappresentati nell’Assemblea nazionale (Les Républicains fanno già parte, nell’ottica presidenziale, delle forze di governo?) sono l’emblema della sua lettura dal 2016 in poi: oltre la destra e la sinistra classica e oltre la cosiddetta politique politicienne. Di fronte a questo quadro tutti e tre i blocchi hanno responsabilità proprie. Esclusa l’ipotesi del governo di unità nazionale, restano due strade: che alcune forze si aggiungano alla maggioranza presidenziale solo relativa al momento o in alternativa che si costruiscano maggioranze differenti in base ai singoli provvedimenti. L’interesse del Paese pretende una serie di riforme connesse alla crisi del processo di globalizzazione e al ritorno della conflittualità, anche militare, su scala mondiale.
Secondo un sondaggio il 71% dei francesi giudica positivamente il fatto che il presidente non possa contare su una maggioranza assoluta all’Assemblea. Conclude però Macron: questo fa aumentare le responsabilità per l’inquilino dell’Eliseo, almeno quanto per ogni singolo nuovo eletto a Palais Bourbon. Al ritorno dal Consiglio europeo del 23-24 giugno, per il presidente sarà tempo di “trancher”. Macron ne è consapevole? Le forze politiche vincitrici del “terzo turno” legislativo lo sono allo stesso modo?
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