Il risultato delle elezioni austriache del 29 settembre non ha confermato solo l’ondata montante delle nuove destre nazionalpopuliste in Europa. Ha ribadito anche un dato meno considerato dagli analisti e purtuttavia rilevante. Riguarda la tenuta del partito socialdemocratico (SpÖ) non solo a Vienna, dove è risultato il primo partito con quasi il 30% dei consensi e un incremento di quasi 3 punti, ma anche a Linz, Innsbruck, Sankt Pölten e Granz. Andando a ritroso nel tempo breve, si possono apprezzare meglio le dimensioni del fenomeno.

Il 22 settembre si è votato in Brandeburgo, nella cui città più popolosa, Potsdam, sono stati i socialdemocratici del Spd a ottenere più consensi, davanti ad Alternative für Deutschland (AfD) preferita sì dalle fasce giovanili e meno anziane, ma anche da quelle con il più basso grado d’istruzione. Nelle elezioni del 1° settembre in Turingia, nella capitale Erfurt su quattro circoscrizioni ha prevalso AfD in due, mentre le altre sono andate alla sinistra (Die Linke) e ai popolari della Cdu; a Jena entrambe a Die Linke, mentre a Weimar AfD ha prevalso su Die Linke. Analogo il risultato della Sassonia, dove AfD miete più consensi a mano a mano che ci si allontana da Lipsia e da Dresda.

Risaliamo nel tempo, sempre breve. Nelle elezioni per la Camera bassa del 4 luglio nel Regno Unito, nelle cinque città più popolose – Londra, Birmingham, Manchester, Glasgow e Leeds – ha vinto il Labour. Nelle amministrative del 2 maggio 2024 era successa la stessa cosa a Londra, andata ai laburisti, con il partito della Brexit (Reform UK) al 3,1%, a Manchester, Glasgow, Leeds e, nel maggio 2023, a Birmingham.

L’analisi del voto del primo turno delle elezioni legislative francesi del 30 giugno, il più significativo da questo punto di vista, ha rivelato che nei comuni con più di 200 mila abitanti la coalizione che ha raccolto più voti è stato il Nouveau front populaire (Nfp), con il 33%, seguita dal Rassemblement national (Rn) con il 28%. Di contro, nei comuni con meno di 2.000 abitanti è stato il Rn a mietere più consensi con il 40%, seguito dal Nfp con il 23%. Per quanto riguarda le fasce d’età, quella tra il 18 e 24 anni ha votato per il 48% per il Nfp e solo per il 33% per il Rn. Il dato trova conferma sul piano amministrativo, poiché in Francia sono le coalizioni progressiste a governare le tre città più popolose – Parigi, Marsiglia e Lione – mentre le due che vengono subito dopo per numero di abitanti, Tolosa e Nizza, sono amministrate, rispettivamente, dalla destra repubblicana e da un centro-destra comunque europeista. L'unica città amministrata dal Rn di Le Pen è Perpignan.

Tornando nel Regno Unito, qualcosa di simile era emerso in occasione del voto sulla Brexit il 23 giugno 2016, allorché il consenso a favore del Leave era prevalso nella popolazione più anziana e meno istruita, mentre la popolazione più giovane e con più alto titolo di studio aveva votato in misura significativamente maggiore per il Remain – emblematico il voto del centro di Cambridge, con il Remain all’87,8% dei consensi, mentre più articolata e contraddittoria era risultata la distribuzione del voto considerando le appartenenze etniche. A preoccupare era stata, semmai, la decrescente partecipazione al voto in base all’età: dall’83% degli over 65 al 36% della fascia compresa tra i 18 e i 24 anni.

Le capitali dell’Europa sono per lo più amministrate da forze politiche di orientamento democratico, europeista, liberale o socialdemocratico

Le capitali dell’Europa presentano attualmente lo stesso fenomeno: Amsterdam, Berlino, Bratislava, Bruxelles, Budapest, Londra, Parigi, Roma, Varsavia, Vienna e Zagabria sono amministrate da forze politiche di orientamento democratico, europeista, liberale o socialdemocratico, mentre nella vicina Turchia l’opposizione del Partito popolare repubblicano (Chp), certamente progressista rispetto al partito di Erdogan, amministra le città di Ankara, Istanbul e Smirne. Stesso discorso per altre grandi città europee, tra quelle non segnalate fin qui: Amburgo, Barcellona, Monaco di Baviera, Cracovia, Danzica ecc.

Altra conferma la fornisce l’Italia, dove le tre città principali – Roma, Milano e Napoli – hanno amministrazioni di centro-sinistra, così come le hanno Torino, Bologna, Firenze e Bari. Delle prime dieci per abitanti, solo tre sono amministrate dal centro-destra: Palermo, Genova e Catania.

Il dato non è circoscritto all’Europa. Notorio è che negli Stati Uniti l’elettorato delle aree urbane si schiera generalmente con i democratici, quelli delle aree rurali con il partito repubblicano, che con Trump ha conosciuto una mutazione genetica di segno populista. Tuttavia, dei 27 Stati che oggi hanno un governatore repubblicano, 21 hanno capitali a guida democratica. Dei 23 Stati con governatori democratici, 15 hanno esponenti democratici alla guida delle capitali, mentre 7 hanno sindaci indipendenti. Siccome non tutte le capitali coincidono con le città più popolose, più convincente è rilevare che delle prime dieci città per popolazione, otto, segnatamente in ordine decrescente (New York, Los Angeles, Chicago, Houston, Philadelphia, Phoenix, Austin e San Francisco), hanno sindaci democratici, con le uniche eccezioni San Antonio, guidata da un indipendente progressista, e Dallas, da un repubblicano. Risaputo è, poi, che l’altra faglia della politica americana riguarda il livello d’istruzione. Nel 2020, secondo gli exit pool della Cnn, essendo costituito da laureati il 41% dell’elettorato, di questi il 55% votò Biden, il 43% Trump.

Le poche eccezioni – Madrid e Lisbona, tra le capitali europee occidentali – non sono in grado di smentire il dato. Certo, analisi più approfondite svelerebbero ulteriori specificità (di genere, per esempio) e un’articolata gamma di sfumature, ma richiamando la difformità tra il voto dei grandi conglomerati urbani e quello della provincia e dei territori rurali si ottiene una rappresentazione non lontana dalla realtà che fornisce una chiave di lettura non sufficiente, ma comunque solida. Questa non tende a confortare la vigente, anche se un po’ offuscata, contrapposizione tra destre e sinistre, ma suggerisce considerazioni di carattere geopolitico relativamente all’argine che il nazionalpopulismo ha trovato, almeno finora, nelle città.

Decifrare questo dato della realtà risulta estremamente complesso e al contempo necessario. Una prima approssimazione consente di mandare alle ortiche gli stigmi della Ztl e del “radical chic” appioppati dalle destre nazionalpopuliste nostrane ai residenti nei centri storici. La storia – il tempo lungo, in questo caso – sta a dirci che urbano fu il fenomeno delle Repubbliche marinare, che nelle città prese forma il Rinascimento e poi il Risorgimento, mentre – ampliando lo sguardo all’Europa – contro le città furono i moti vandeani, il carlismo spagnolo e gli altri movimenti legittimisti, senza escludere le insorgenze e il sanfedismo nel nostro Mezzogiorno. Insomma, pare del tutto evidente che le città abbiano vissuto la modernità, di cui sono una delle manifestazioni più palesi, in anticipo sulla provincia e la campagna; che storicamente è nelle città che sono insediati centri preposti alla ricerca e all’innovazione, università, centri studi e fondazioni culturali; che nelle città si concentrano il maggior numero di laureati, i ceti medi riflessivi e produttivi.

Le nuove destre nazionalpopuliste, a differenza dei nazionalismi degli anni tra le due guerre, latori di un progetto di società e di Stato, hanno fatto irruzione nello spazio pubblico offrendo soluzioni (false) solo per l’immediato presente

Dunque, come spiegare la novità dei nuovi nazionalpopulismi che assediano le città, senza riproporre una lettura che sovrapponga al binomio città vs. campagna quello obsoleto di modernità vs. tradizione? Lo si può fare insistendo in primo luogo sul fatto che la novità, anche quando si caratterizza per l’uso estensivo di strumenti moderni quali le reti sociali, non coincide con la modernità, quanto, se mai, con quel “modernismo reazionario” ben noto agli storici; in secondo luogo, ribadendo il carattere storicamente regressivo del sovranismo, della pretesa difesa dei confini nazionali, di un patriottismo manipolatorio e à la carte, dell’uso strumentale della religione nel Dio-Patria-Famiglia, della xenofobia, dello spauracchio della “grande sostituzione”, sintagma recente dal sapore antico, essendo stata la questione demografica centrale in tutti i nazionalismi primonovecenteschi.

Le nuove destre nazionalpopuliste, a differenza dei nazionalismi degli anni tra le due guerre e dei fascismi nelle diverse declinazioni, latori tutti di un progetto di società e di Stato, hanno fatto irruzione nello spazio pubblico offrendo soluzioni (false) solo per l’immediato presente. Esse cavalcano il diffuso spaesamento prodotto dalla globalizzazione con una vistosa sinecura del futuro. Nel tempo delle post grandi ideologie e della post secolarizzazione, le prospettive future (il paradiso, il regno di Dio, la società di liberi e di uguali, il comunismo) hanno sensibilmente ridotto la loro presa. L’unico orizzonte è il presente. Chi sta male ha bisogno di migliorare la propria condizione. Subito. E sull’urgenza è facile preda delle paure procurate ad arte a fronte della spensieratezza rispetto alle minacce reali. Specie quando non dispone degli strumenti culturali per dipanare il corso degli eventi, per distinguere le fake news dai fatti certi. Di contro, chi non ha problemi economici urgenti e né ha gli strumenti culturali, riesce a pensare oltre. Sa che bisogna fare qualcosa ora per contrastare il mutamento climatico, le cui conseguenze, che già s’intravvedono, saranno catastrofiche domani. Comprende che l’immigrazione è una risorsa oggi, onde evitare il crollo dello Stato sociale domani. Capisce che solo innestando oggi efficaci strategie di integrazione e acquisizione della cittadinanza, si eviteranno conflitti distruttivi del tessuto sociale domani. Più in generale riesce a sintonizzarsi con i problemi posti dalla decarbonizzazione, dalla transizione energetica, dalle necessità dello sviluppo sostenibile, dal multiculturalismo, questioni irrise dalle nuove destre nazionalpopuliste. Le quali, non per caso, hanno tutte un atteggiamento antintellettualistico, cioè ostile a chi sulla base dei propri studi prospetta i rischi insiti nel futuro. Un antiintellettualismo, peraltro, che sconfina spesso nella diffidenza per la ricerca scientifica, quando non apertamente per la scienza in quanto tale. Basti pensare all’esito delle campagne No vax o alla diffusione delle più bizzarre teorie complottistiche.

Semplificando in modo grossolano, a fronte del montante nazionalpopulismo che sa parlare solo del presente, stanno forze progressiste con visione di futuro, ma la cui offerta politica stenta, o non riesce, a collegare questo alle urgenze del presente.

La sfida per le forze del progresso, pertanto, non è solo quella di riconquistare il consenso del frammentato proletariato industriale, del mondo del lavoro e soprattutto di (ri)conquistare le zone rurali, le province e le periferie, ma quella di riuscire a proporre un convincente rapporto tra il presente e il futuro. Questa la posta in gioco, forse mai come di questi tempi di carattere eminentemente culturale.