In una poesia poco nota del 1953, Pier Paolo Pasolini racconta di come passeggiando per una Roma dolce e desolata, carica di un’ansia e di una tensione indefinite, si sia trovato d’improvviso in mezzo a una “smorta folla”. In mezzo a quella folla un palco coperto di bandiere, al centro la fiamma fascista. È una rara testimonianza lirica di un raduno del Movimento sociale italiano – il partito fondato da Almirante nel 1946 – nella quale Pasolini descrive, attraverso la prospettiva sensuale che gli è propria, fatta di sensazioni fisiche, quasi epidermiche, lo straniamento e lo sconforto di ritrovarsi di fronte a un fascismo redivivo, seppure per una sera e in una sola piazza, a pochi anni dai freschi giorni di speranza della Liberazione.
Ora, alla vigilia del 25 aprile 2023, come in un cannocchiale rovesciato, questa poesia mi è tornata in mente. Quest’anno, lo sappiamo, le celebrazioni della Liberazione assumono un significato diverso. Per la prima volta nella storia repubblicana in capo al governo e alle principali cariche istituzionali siedono esponenti che la storia missina rivendicano con orgoglio, e sono arrivati a occupare quelle posizioni a cento anni esatti dalla Marcia su Roma, che del regime di Mussolini fu mito fondativo.
Quest’anno, lo sappiamo, le celebrazioni della Liberazione assumono un significato diverso
Qualcuno, nei mesi passati, ha sostenuto che l’ingresso degli eredi diretti del partito neofascista nel cuore dello Stato rappresentasse una sorta di normalizzazione, a lungo attesa, per poter pacificare il Paese. In fondo sono trascorsi quasi ottant’anni dalla Liberazione, più o meno la stessa distanza che separa un giovane degli anni Cinquanta dal periodo risorgimentale. Vicende lontane, che non giustificano il perdurare della radiazione di fondo della guerra civile dalla storia italiana. La giovane premier, del resto, che motivo avrebbe di rivangare vecchie storie che non interessano più a nessuno?
Eppure, non passa giorno in cui non si assista a una dichiarazione che proprio sulla delegittimazione della Resistenza e sulla negazione delle fondamenta antifasciste della Repubblica va a insistere. Non si tratta di vecchie storie; è proprio una storia “altra” che si vorrebbe scrivere.
Ancora non si è posata la polemica sollevata dalle vergognose parole del presidente del Senato sull’attentato di via Rasella, parole che seguivano di pochi giorni, ricordiamolo, un’uscita altrettanto mistificatoria del capo del governo sui 335 morti assassinati nelle Fosse Ardeatine. Prese insieme, messe l’una a fianco dell’altra, le due affermazioni disegnano un quadro coerente, in cui chi ha lottato contro l’occupazione tedesca e il regime fascista o scompare – i martiri delle Ardeatine uccisi in quanto italiani – o viene esplicitamente indicato come un avventato provocatore, che per inseguire testardamente posizioni di parte (vedi anche l’ultima intemerata, sempre di La Russa, sui partigiani rossi e i partigiani bianchi) mette a repentaglio la sicurezza di tutti. Diventando così corresponsabile della ferocia stragista perpetrata da coloro che combatteva e che tentava con ogni mezzo di rovesciare, a rischio, innanzitutto, della propria vita.
"La strategia consiste nel somministrare il veleno a piccole dosi sapientemente distillate perché il corpo si abitui" – ha scritto lo storico Antonio Gibelli in un recente intervento sul "Secolo XIX" – "ossia modificare la narrazione pubblica della storia italiana così come è scritta indelebilmente nella Costituzione: depotenziare la discriminante tra fascismo e antifascismo, il primo macchia pesante, autentico macigno nella storia italiana, il secondo (tutti compresi) artefice della rinascita democratica".
Non è un caso che tale strategia venga applicata in relazione ai fatti di via Rasella, e alla strage che ne è seguita. All’attentato del 23 marzo 1944 contro le forze tedesche di stanza nella capitale (spacciata come banda musicale di anziani pensionati) parteciparono protagonisti di primo piano della Resistenza e della stagione costituzionale, come Franco Calamandrei, e gettare fango e rilanciare falsità permette di macchiare in un colpo solo la lotta partigiana e la sua eredità istituzionale.
D'altronde, non c'è dubbio che la questione delle rappresaglie costituisca uno dei nodi più drammatici di quegli anni bui. Un tempo, durante la Seconda guerra mondiale, in cui la vita costava cara e il prezzo chiamava in causa quotidianamente la moralità stessa di ogni scelta, politica ed esistenziale. Non è certo un caso che, nel suo libro imprescindibile sulla guerra civile, che chiunque dovrebbe leggere per comprendere la realtà viva e complessa del fenomeno resistenziale, Claudio Pavone dedichi alle rappresaglie un intero paragrafo, nel viluppo di dubbi e dilemmi tra il dovere morale di agire e la terribile valutazione dei rischi, individuali e collettivi, che ne derivavano.
Non furono solo i tedeschi, come si vuol far credere per attenuare le responsabilità del fascismo, a perpetrare rappresaglie su oppositori e civili. Non solo perché, come ha opportunamente ricordato il presidente Mattarella in visita ad Auschwitz-Birkenau, furono mani di fascisti a consegnare i nostri concittadini alla ferocia tedesca, ma perché i fascisti repubblicani si macchiarono direttamente e ripetutamente di rappresaglie, sulla scia di quanto fatto dal regio esercito nei Balcani e in Africa. Basti ricordare la strage di Ferrara del 15 novembre del 1943, nella quale furono assassinati 11 “traditori del fascismo” (antifascisti, ebrei, oppositori del regime), come vendetta per l’assassinio del Federale Igino Ghisellini. La strage di Ferrara segna un punto di svolta nella guerra civile, e ce ne rimane una mirabile rappresentazione in un racconto di un altro grande scrittore sodale di Pasolini, Giorgio Bassani, nella bellissima raccolta – in bilico tra guerra e dopoguerra, memoria e oblio – delle Cinque storie ferraresi.
La stessa strategia di rimozione è emersa con evidenza durante la visita di Meloni in Etiopia. Nel rapportarsi a un Paese un tempo messo a ferro e fuoco dai nostri connazionali, non si sfiora il passato coloniale, preferendo parlare in maniera ambigua di “relazioni storiche da rafforzare ulteriormente”. Sia chiaro, la rimozione dei crimini commessi durante le guerre in Africa (prima e durante il fascismo) e il mancato riconoscimento pubblico di quella pagina nera della storia nazionale non sono certo responsabilità dell’attuale governo. Ma non si può non notare come questo sprezzo venga dalla leader di un partito che riconosce pubblicamente il maresciallo Rodolfo Graziani – gerarca fascista, criminale di guerra per i massacri in Etiopia e Libia, presidente del Msi nel dopoguerra – come un eroe cui tributare onori e riconoscimenti.
Non è vano ribadire la verità storica di fronte a continui tentativi di offuscare i confini tra vero e falso, tra alluso e dichiarato, tra scandalo e smentita
Non è vano ricordare questi fatti, come non lo è ribadire la verità storica di fronte a continui tentativi di offuscare i confini tra vero e falso, tra alluso e dichiarato, tra scandalo e smentita. D’altronde, come è stata affrontata la polemica su via Rasella e le Ardeatine da parte dei due protagonisti che l’hanno innescata? Con una spavalda scrollata di spalle, volta come sempre a minimizzare. Minimizzare e dissimulare, perché è evidente la volontà di Meloni, La Russa e colleghi di spostare il confine del lecito ogni giorno un po’ più in là.
Del resto, in questa storia alternativa il fascismo – quello storico, ma anche e soprattutto il neofascismo del dopoguerra, con tutti i suoi lati eversivi – è visto come una fiamma pura al quale pochi audaci, soldati al servizio dell’ideale, hanno prestato energie e passioni, mentre la costituzione materiale e immateriale del Paese ingiustamente li emarginava. Ora che al governo siedono i nipoti e i figli di quel pugno di eroi trattati a lungo da paria, è arrivato finalmente il momento di riconoscerne il valore e il ruolo, addirittura “democratico”, inserendoli a pieno titolo nel pantheon repubblicano.
Nella poesia da cui sono partito il fascismo, creduto morto, torna inaspettato, odioso, offuscando e rendendo irreali i bei giorni della vittoria, i freschi giorni del popolo, la Liberazione e il 25 aprile, quasi essi fossero morti. Ma è allora che appare nella folla una presenza amica, un compagno, fantasma nei fantasmi, che lancia uno sguardo fraterno che il poeta riconosce all’istante. È Guido, fratello minore di Pasolini, giovanissimo partigiano morto sui monti per mano di altri partigiani: la storia è sempre contraddittoria e sempre complessa. È qui che prendono il volo i versi di Pasolini, quasi cinematograficamente, sollevando lo sguardo in un crescendo lirico che risuona anche oggi, e che ci invita a scendere in piazza questo 25 aprile, non solo per ricordare ciò che stato, ma per pietà verso il nostro stesso destino.
E in questo triste sguardo d'intesa, / per la prima volta, dall'inverno / in cui la sua ventura fu appresa, / e mai creduta, mio fratello mi sorride, / mi é vicino. Ha dolorosa e accesa, / nel sorriso, la luce con cui vide, / oscuro partigiano, non ventenne / ancora, come era da decidere / con vera dignità, con furia indenne / d'odio, la nuova nostra storia: e un'ombra, / in quei poveri occhi, umiliante e solenne... / Egli chiede pietà, con quel suo modesto, / tremendo sguardo, non per il suo destino, / ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto, / il troppo puro, che deve andare a capo chino? / Mendicare un po' di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?
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