Tanto per dire come sta cambiando e cambierà il lavoro. Domenica 29 novembre l’inviato del “Corriere della Sera” Massimo Gaggi ha pubblicato su “La Lettura”, l’inserto letterario del quotidiano, una corrispondenza molto interessante scritta da San Francisco: Lavoro a gettone, l’ora dei diritti.
L’articolo elenca una decina di start up della metropoli statunitense. Riassumo alla rinfusa: un sito per i servizi di assistenza alla famiglia; una società che procura veterinari on demand; un servizio che cura consegne a domicilio per conto di negozi e ristoranti; una società che offre servizi agli uffici, anche istantanei. È la gig economy dei lavori a gettone, detta anche Uber economy. Queste piccole (talvolta finte) imprese, messe su in genere da giovanissimi, dedite a facilitare servizi in settori altrimenti bloccati dalla loro rigidità, sono sempre più diffuse in America e anche, ormai, in Europa. Hanno un vizio capitale, però: chi le inventa e ci lavora non ha tutele.
Nasce dunque a San Francisco il Good Work Code, su iniziativa della National Domestic Work Alliance, «un’alleanza che riunisce 53 organizzazioni che tutelano i lavoratori domestici (baby-sitter, infermieri e fisioterapisti a domicilio, badanti, personale delle pulizie), senza sindacato e non tutelati dalle leggi sul lavoro». Perché le leggi tutelano il personale strutturato, con contratto fisso, ma ignorano i precari del lavoro a gettone. I firmatari di questo accordo propongono di imporre, in questi lavori diversi dal lavoro tradizionale ed anche differenti tra di loro (talvolta profondamente differenti, per contenuti della prestazione, tempi, modalità e forme di retribuzione) otto valori base: un salario sufficiente per vivere dignitosamente, adeguata trasparenza, sicurezza sul lavoro, stabilità pur nel quadro della fisiologica flessibilità di queste tipologie di lavoro, “prosperità condivisa”, politiche di inclusione nell’azienda, possibilità per i lavoratori di crescita professionale nell’arco del tempo ecc.
I sindacati tradizionali in America sono contrari a queste start up. Ma circa 54 milioni di americani, secondo Sara Horowitz, direttore esecutivo della Freelancers Union, sono impegnati nel lavoro freelance. Quindi il problema di come tutelarli esiste e si impone anzi con urgenza.
In realtà il numero (54 milioni) è contestabile (sarebbero, se fosse così, addirittura un terzo dei 157 milioni di lavoratori dipendenti Usa). Il panorama statistico è difficile da decifrare, perché questo tipo di lavoro è per sua natura volatile: può essere provvisorio, perché passa attraverso i canali digitali e perché si evolve continuamente.
Il quadro è aggravato dal fatto che, secondo stime autorevoli, i robot, entro pochi decenni, potrebbero “mangiarsi” quasi la metà dei posti di lavoro oggi coperti da esseri umani, sia lavoratori stabili, sia freelance. Anche se il capo di Microsoft, Satya Nadella, sostiene che «tecnologie come quella dell’assistente vocale Cortana (o Siri, nella versione Apple) sono destinate a trasformare gli utenti in lavoratori aumentati, che cederanno ai robot non interi impieghi ma soltanto alcune mansioni, sviluppandone al contrario altre più sofisticate, che dovrebbero far crescere la produttività del sistema».
Cambia anche il criterio della selezione. Per esempio la buona laurea (negli Usa c’è una gerarchia molto nota tra le università e chi viene da Harvard o Standford o dal Mit “vale” di più di chi ha studiato in un ateneo periferico): «a San Francisco ‒ scrive Gaggi ‒ Laszlo Bock, vicepresidente di Google per le People Operations, una specie di super revisore delle risorse umane, ha spiegato che da loro negli ultimi anni la politica delle assunzioni è cambiata radicalmente dopo che ci si è accorti che, a distanza di un decennio dall’ingresso in azienda, non c’è più alcuna relazione tra il rendimento professionale di un dipendente e la sua origine accademica».
Ma quel che ci interessa di questa intelligente apertura sul mondo americano (presumibilmente il nostro futuro prossimo) è il fenomeno del proliferare delle start up, che si collocano negli snodi del sistema produttivo o dei servizi (per ora principalmente in questo secondo). Dietro – è quasi banale ricordarlo – c’è la crisi della grande impresa del Novecento, capace di autorifornirsi di tutti i tipi di lavoro necessari “in casa”, senza dipendere dall’esterno, o dipendendo comunque da una filiera “amica” da essa stessa alimentata. Tutto il contrario del futuro che ci si prospetta, nel quale dovremo abituarci a queste forme frammentate e iperflessibili. Del resto lo vediamo già oggi, in Italia. Faccio solo un esempio: la normativa dello Stato sulla sicurezza sul lavoro, che obbliga i datori di lavoro pubblici e privati a determinati adempimenti e a una adeguata formazione di responsabili della sicurezza, sta provocando la nascita spontanea di società, quasi sempre tra giovani, che appunto impartiscono quella formazione e talvolta ne certificano anche i risultati concreti. Cioè una funzione che nel secolo scorso sarebbe stata tipicamente dello Stato viene pacificamente delegata ai privati, secondo un modello di collaborazione pubblico-privato ignoto al mondo di ieri ma che diverrà probabilmente usuale in quello di domani.
Ne derivano molte conseguenze, ma almeno due meritano di essere subito segnalate.
La prima è l’attualità che assume il tema della tutela di coloro che in questo nuovo settore lavorano, con rapporti di vario tipo. Diritti, pensione, possibilità di crescita professionale e culturale ecc.
La seconda concerne le trasformazioni che sta attraversando il lavoro. Qui si prospetta una sfida epocale, alla quale non solo la cultura dei sindacati europei (non parliamo di quelli italiani) ma la percezione stessa delle classi dirigenti dei Paesi del vecchio continente sembrano largamente inadeguate. Lo si vede bene nella deludente discussione sui contratti nazionali, dopo la giusta sentenza della Corte costituzionale che l’estate scorsa ha stabilito l’illegittimità della loro interruzione sine die. Giusta sentenza, ho detto, come giusto è il corollario della Corte che esclude se ne possano proiettare gli effetti sul periodo antecedente. Tuttavia, guardando al dibattito che ne è scaturito, viene spontaneo domandarsi se nel mondo del lavoro così come si va trasformando rapidamente sotto i nostri occhi (spesso disattenti) il contratto nazionale, questo monumento che campeggia giustamente come una conquista nella storia del lavoro del Novecento, non sia da considerarsi oggi uno strumento inadeguato: perché ormai il lavoro si frastaglia in mille specificazioni diverse, dà luogo a una miriade di rapporti disomogenei e soprattutto appare dominato da una febbrile tendenza alla mobilità e alla flessibilità. Sicché forse (dico forse, perché io stesso non ne sono del tutto sicuro) gioverebbe meglio pensare a forme di regolazione consensuale meno rigide, più consapevoli del valore della differenza e della specificità, tipiche del tempo che già viviamo e che ancor più vivremo.
D’altra parte mi domando: basta la tutela che noi abbiamo elaborato nel tempo e a prezzo di durissime lotte sociali per i lavoratori stabili, quelli assunti a tempo indeterminato? Può adattarsi anche agli attuali e futuri lavoratori free lance, pure protagonisti di tanta parte dell’esperienza contemporanea? I dati in calo delle iscrizioni ai sindacati dicono qualcosa, anche in relazione a simili interrogativi.
Insomma, si tratta di rivedere molte concezioni storicamente superate o per lo meno in via di superamento: il che riguarda tutti, ma specificamente chiama in causa il sindacato, la sua cultura, la sua capacità di restare – rinnovandosi però, ecco il punto – un soggetto protagonista fondamentale nell’epoca della trasformazione del lavoro.
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