Mentre gli studenti e i ricercatori protestano contro la riforma dell’università, e la ministra Gelmini e i suoi sostenitori proclamano che questa è fatta in nome del riconoscimento al merito, zitti zitti molti professori ordinari di prima fascia, che con il nuovo sistema voluto da Gelmini hanno ormai tutto il potere di decisione, perseguono le proprie logiche di reclutamento.
Dato che i criteri di valutazione definiti nelle norme sono fluidi al di là del ragionevole e soprattutto non vi è alcuna forma di disincentivo e punizione per scelte malaccorte, spesso prevale unicamente la legge del più forte, oggi come e più di prima. Mi limito a recenti esempi nel campo che conosco meglio, quello della sociologia. Ma ho notizia che non si tratta di una particolare concentrazione di impudenza, omertà, vigliacchieria in questo specifico settore disciplinare e che casi analoghi si trovano anche altrove.
Dunque, in cinque concorsi, due per associato e tre per ricercatori, svoltisi di recente nell’ateneo torinese, il vincitore, peraltro in almeno quattro su cinque casi dato per noto in anticipo, aveva titoli ampiamente inferiori a quelli di diversi altri candidati, se misurati con i criteri minimi condivisi a livello internazionale: avere o meno un dottorato, standing accademico della casa editrice o della rivista su cui si è pubblicato, aver pubblicato in sedi internazionali, avere esperienze e riconoscimenti all’estero e così via. In tutti e cinque i casi, nessuno dei vincitori, anche tra quelli più competenti, è mai uscito dall’ateneo di provenienza, ovvero tutti sono stati pazientemente in fila, contando, con successo, che la loro fedeltà fosse premiata. Una vincitrice di concorso di associato, appena prima di vincere, aveva avuto difficoltà a ottenere la conferma come ricercatrice. In un altro caso, le uniche pubblicazioni per cui è noto il vincitore sono apprezzabili romanzi gialli.
Naturalmente, in queste come in altre occasioni simili, i commissari hanno argomentato i propri giudizi con l’uso appropriato di aggettivi, ben sapendo che, purché sia garantita la correttezza formale degli atti, nessuno potrebbe impugnare l’insindacabile valutazione per cui un libro pubblicato da un tipografo locale vale più di un volume pubblicato da una casa editrice internazionale, o un articolo pubblicato nei working papers del dipartimento, o nella rivista del caposcuola, vale più di un articolo pubblicato in una rivista internazionale con referee anonimi.
Non vi è dubbio che anche i criteri oggettivi ormai in vigore in tutte le istituzioni accademiche che si rispettino hanno i loro limiti e andrebbero integrati da una valutazione qualitativa
Non vi è dubbio che anche i criteri oggettivi ormai in vigore in tutte le istituzioni accademiche che si rispettino – valore Isi o ranking in Publish or Perish, o simili – hanno i loro limiti e andrebbero integrati da una valutazione qualitativa, ovvero da una lettura e discussione dei testi. Tuttavia dovrebbero costituire almeno un punto di partenza, una soglia al di sotto della quale non si può scendere. Questi, e altri, episodi invece testimoniano come molti professori ordinari considerino meritevole innanzittutto, se non esclusivamente, la fedeltà e l’appartenenza. Con effetti devastanti sia sul reclutamento sia sui comportamenti dei più giovani.
In questa situazione, infatti, non resta che dire ai più bravi di smettere di pensare che le cose cambino e consigliarli di andarsene dall’università italiana. Non sarà certo la minaccia di allocare una quota “non superiore al 10%” dei finanziamenti all’università sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento (art. 5.5 della Legge di riforma) a persuadere le università a rifiutare gli esiti di commissioni di concorso così poco attente al merito e a costringere i commissari a comportamenti più responsabili. Tanto più che anche chi dissente, per quieto vivere, vigliaccheria, scoraggiamento, speranza di potersi rifare un’altra volta, raramente esplicita il proprio dissenso assumendo la responsabilità di una relazione di minoranza argomentata, che renderebbe pubblici i criteri inaccettabili e potrebbe persino aprire a un ricorso da parte non solo o tanto degli sconfitti, ma dell’università che ha bandito il concorso. Nel migliore dei casi vota contro, a volte neppure questo.
In questa situazione non resta che dire ai più bravi di smettere di pensare che le cose cambino e consigliarli di andarsene dall’università italiana
Senza punizioni finanziarie e senza shaming and naming, anche il nuovo sistema di idoneità nazionale seguito da chiamata locale è destinato a non aver alcun effetto sugli impuniti irresponsabili che utilizzano l’accademia come personale terreno di conquista.
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